Dagli al "caiano" -

2023-01-05 16:38:07 By : Ms. Julia zhang

Dagli al “caiano” (pubblicato su Lo Zaino n. 18 e su lozaino.it)

E’ fuori di dubbio che in questi due ultimi decenni la considerazione che i giovani hanno del Club Alpino Italiano sia assai diminuita rispetto al secolo scorso, nel migliore dei casi rarefatta in un indifferente distacco. Ciò a dispetto dell’accresciuto numero dei soci, giusto vanto del Sodalizio. Sarebbe però interessante avere una statistica sull’età media del socio del CAI: io credo che si scoprirebbe che è aumentata di parecchio.

Si è cominciato con le critiche  per nulla velate che apparivano sui forum più in vista: è lì che è stato affibbiato, con evidente significato dispregiativo, il nomignolo di “caiano” a quel socio CAI che acriticamente segue le direttive e soprattutto le vetuste mode di un attempato modo di intendere associazionismo e modo di andare in montagna. Se ci si prende la briga di visitare un po’ di profili facebook, con annessi e connessi post e commenti, si vede che la parola “caiano” è ormai diventata d’uso comune: a certuni sembra che l’essere iscritto al CAI sia una nota di demerito. E non è più uno scherzo.

Tutto questo può apparire assai impietoso e inaccettabile a chi ha creduto e crede nel CAI, un’associazione alla quale ha dato e dalla quale spesso anche ricevuto. In questi individui, la conseguenza più immediata è l’allontanamento da ogni tentativo di comprendere almeno qualche perché.

Eppure gli esempi storici che c’insegnano che questo genere di processi è del tutto normale non mancano di certo: ne cito, per brevità, solo due.

1) All’inizio del secolo XX, specialmente subito prima del primo conflitto mondiale, nacquero parecchie associazioni che, a vario titolo, si distaccavano radicalmente del Club Alpino Italiano, rivendicando altri scopi e altri modi di andare in montagna: che diventava quindi anche “operaia” e non soltanto appannaggio di nobiltà e borghesia.

2) Posteriormente ai moti del 1968, le acque dello stagno furono assai agitate dal Nuovo Mattino, che abbatteva il mito della vetta e della conquista ad ogni costo, ma anche dall’articolo di Reinhold Messner L’assassinio dell’impossibile, che rivendicava senza mezzi termini la necessità di un ritorno immediato all’arrampicata libera e quindi l’abbandono, da parte dell’istituzione CAI, del modo di celebrare le imprese, fino a quel momento impostato sulla conquista (senza badare al come si conquistava).

E’ un dato di fatto che il CAI, da almeno una quarantina d’anni, ha dato ben poca importanza nelle sue pubblicazioni e nella sua attività culturale all’alpinismo nuovo, ai giovani. Se si escludono le serate organizzate dalle Sezioni del CAI in onore di nomi nuovi, accanto a quelli vecchi, non rimane nulla. La mia opinione è che se si trascura l’alpinismo dei giovani, ci sarà (come in effetti è stato) un generale loro allontanamento (anche di coloro che non scalano ma sono appassionati di montagna) da un’associazione che mai potrebbero sentire consona ai loro bisogni.

Aggiungiamo la frammentazione dell’alpinismo che si è verificata, con una serie di discipline assai diverse che non sto neppure a elencare. Nessuno, a livello generale, ha seguito con attenzione l’evoluzione di questo fenomeno, neppure il Club Alpino Accademico, che più di tutti avrebbe dovuto farlo. Tanto è vero che oggi il CAAI è tra le associazioni a più alta età media dei soci.

Non sostengo che il CAI avrebbe dovuto inseguire tutte queste singole discipline: al contrario avrebbe dovuto (come ha fatto, in qualche caso controvoglia) scortare e favorire il passaggio a organizzazioni più dedicate, intavolando però con loro una seria collaborazione.

Ricordo i Festival di Trento degli anni Settanta, ma anche degli Ottanta: erano pieni zeppi di vita, pochi eventi ma tanti invitati, il fior fiore degli alpinisti da tutto il mondo. Si facevano due convegni, non di più, accanto alla regolare proiezione dei film in concorso. Ma quelle riunioni sono risultate memorabili in più occasioni, con lo scontro appassionato di persone che ci credevano. Oggi un normale Festival di Trento ha anche fino a cento eventi, piccoli e grandi: ma in nessuno si verifica l’accensione di quella scintilla che nel passato portava i protagonisti, dopo essersi massacrati nelle discussioni pubbliche, a fare vere amicizie a suon di birre fino alle tre del mattino e a programmare imprese e scalate assieme. Nessuno di questi eventi ci fa battere le mani fino a spellarcele, tutti in piedi. Altro che “social”! Oggi si preferisce invitare il grande personaggio, quello che fa rumore sui giornali e presso il grande pubblico: e ci si dimentica della base (costituita guarda caso dai giovani): e senza la base che soffia sul fuoco non c’è fiamma, non c’è passione.

Non escludo affatto che il CAI possa recuperare il terreno perduto: si tratta di comprendere i perché, fare autocritica e ascoltare con pazienza. Si tratta di capire che il futuro è in mano ai giovani e che, se vogliamo aiutarli, non è accettabile l’arroccamento su posizioni prestabilite e ufficiali, considerate le uniche possibili.

Non deve cadere nell’errore che basti dotarsi di strumenti social alla moda (LinkedIn, Instagram, Twitter) per mettersi al passo con i tempi. Il cambiamento dovrà essere radicale, al posto di qualche piccola battaglia ego-riferita dovrà essere soffio vitale nelle pieghe di qualunque riunione del CdC, nelle assemblee, nei consigli di Presidenza, nella rivista del CAI, nei comunicati, nei rapporti con le associazioni ambientaliste, ecc.

Nessun giovane ha mai contestato il Bidecalogo ma, guarda caso, questo prezioso strumento è tra i più disattesi nella pratica quotidiana di CAI e Sezioni!

Sarà una via molto difficile e parecchio esposta a errori e fallimenti. Però l’alternativa è la fine del CAI: prima si verificherebbe la progressiva dispersione dell’autorevolezza culturale fino all’annullamento, in seguito la frammentazione totale in un arcipelago di Sezioni, e infine il crollo delle adesioni.

lo Scarpone del cai avrà un nuovo direttore: sarà un giovane?

Al volontariato se non gli dai corda non lo vedi più.

Scusami la cajana sapientis  patientia domesticus era lunga da scrivere..e sempre un po dimenticata ,avercene! A proposito di groppi 8 all infinito…

Prova a leggere qualche mio romanzo già pubblicato, per esempio Chiamami Jack, e verificherai che le cognettate NON sono assolutamente il mio genere. Esiste un mondo sconfinato al di là delle Otto Montagne.

La caiana? Auguro a Crovella che venga fuori una bella cognettata, così almeno qualche copia rischia di venderla.

Pasini. Mi affretto a depositare presso SIAE il copyright circa “La Caiana” come titolo del mio prossimo libro di montagna. C’è materiale per approfondire il tema, arguto e “pruriginoso” al punto giusto, come richiede oggi la narrativa di montagna. Tranquillo: ti girerò delle royalties. Ciao!

La caiana. Non dimenticate di affrontare questa figura della fenomenologia montagnarda dal grande potenziale. È lì il futuro. Ho amici guida che fanno il grosso del fatturato con questo target: escursioni, ciaspolate, alpinismo facile. Ricavandone persino qualche utilità extra-professionale, la’ dove ci sono le condizioni. Anche se, come noto, il professionista ha approcci diversi e meno ristretti del dilettante? 

Pasini. Per esempio interessante e arguta la tua annotazione sulle vedove allegre, caianissime: non cercano l’8c, ma escursioni, ciaspolate, scialpinismo easy e in genere gran finali in piola…. Non ci avevo mai pensato in modo specifico, ma quello è un segmento di mercato adatto al CAI, da esplorare.

Mi pare vagamente di aver inteso da un brevissimo accenno che forse nelle sezioni CAI di Torino c’è la fila per entrare. Però potrei aver letto male.   Carlo, spiegami di nuovo tutto da capo: ‘sta fila c’è o non c’è?

@148 Pasini. In passato litigammo (forse l’unica volta) perché, proprio qui sul Blog, sostenevi che il CAI dovesse per forza aprirsi (e quindi inserire) gli arrampicatori indoor nati tali, di cui tu avevi fatto una descrizione azzeccata (energumeni tatuati, fanciulle con outfit che, al confronto, Caterine Destivelle era un’educanda…), riportando quanto avevi osservato nella sala indoor da te frequentata (almeno allora) a Milano. Ricordi?   Pensavo tu fossi ancora su quelle posizioni: aprirsi necessariamente al nuovo solo perché il nuovo può far del  bene al CAI. Non ripeto, ma produce solo danni e non comporta valore aggiunto. Corretto acchiappare i topi, ma occhio a “che” topi (e soprattutto a che tope! eh eh eh… ). Non tutti i topi fanno del bene al CAI.

@142 Savonarola. Molte disfunzioni che citi non sono figlie della struttura generale, ma evidentemente di non perfetta organizzazione locale.: è lì che occorre che correggiate. Riunioni in cui si parla del nulla? Qui mai viste, le assemblee istruttori hanno un preciso OdG codificato dal direttore, spedito ex ante e seguito con precisione durante le riunioni. La direzione avanza proposte e l’organico, dopo eventuale dibattito, delibera. Senza tante smancerie. Uno dei punti trradizionali dell’OdG di tali assmblee è proprio la definizione delle attività della stagione entrante e i rispettivi calendari: la Direzione propone, l’assemblea delibera. Poii è “legge”.  I calendari, una volta deliberati, sono fissi e istruttori e allievi possono segnarsi le uscite suylle rispettive agende. Pre prassi le uscite invernali sono in pullman, quelle primaverili in auto. In entrambi i casi, la Direzione decide la meta a ridosso dell’uscita, non mesi o anni prima. Se volete recepire una snellezza operativa dovreste indirizzarvi verso modelli più decisionali al vs interno. Tale indirizzo presuppone che ci siano personalità “forti” (Direttori capaci di convincere, al limite di “imporre”) e l’accettazione di tale modello da parte di tutti. Se invece si preferisce un modello più ecumenico/democratico (ogni cosa viene decisa coinvolgendo tutti, quanto meno tutti gli istruttori), i tempi si allungano e l’inefficienza la fa da padrona. Ma questo non è un problema del CAI Centrale, è una caratteristica delle realtà locali: alcune sono più decisioniste, altre meno.

@JeromeSavonarola @DinoM Concordo parecchio coi vostri commenti 139 e 142. Molte piccole scuole sono destinate ad andare in difficoltà nei prossimi anni, per scarsità di istruttori titolati.

Crovella. Non ho detto che bisogna “acchiappare” nuovi segmenti di mercato. Su questo sono agnostico. Ho detto: se la nuova dirigenza vuole….allora dovrebbe…come avrei farei con un cliente. Personalmente sono attratto da due motti maoisti “Che cento scuole gareggino e cento fiori sboccino (con ovviamente qualche garanzia che non si facciano danni) e “Non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che sappia catturare i topi”. Cerea.

@141 Lusa. Caianamente mi rivolgo a te con pazienza, non per far polemica ma per cercare di istruirti. Da quanto scrivi, emerge che non hai compreso un bel niente sulla realtà subalpina: numeri umani e qualità tecnico-didattiche sono lì, basta analizzarle.. Non sei l’unica a leggere con superficialità, come ho riscontrato ieri. Ma andare in montagna significa anche imparare a usare la testa. Questa è la cosa più importante che noi insegniamo. C’è la fila che bussa alle varie porte delle attività dei vari CAI torinesi, il che non è casuale.

Interessante questa distinzione tra le diverse tipologie di homo caianus. Però nessuno parla della caiana. Io vedo che in alcune attività, ad esempio l’escursionismo o le ciaspole, è diventata una figura dominante. Anzi, visto l’invecchiamento della popolazione, penso che le vedove,finalmente liberate del peso dei doveri di sopportazione, con discrete pensioni di reversibilità e tanto tempo libero, in Italia  diventeranno nel giro dei prossimi 10/15 anni una componente determinante di organizzazioni come il CAI con una base sociale con età elevata ? il vento farà il suo giro. 

@138 Pasini. Esatto, stiamo dicendo le stesse cose. Però o ragioniamo che la realtà sabauda è un mondo a sé (non solo per la montagna, ma nell’approccio alla vita) oppure qualche ragione oggettiva, per il successo del CAI presso i torinese, c’è.   In ogni caso, e qui discordiamo nettamente, non è inserendo (a maggior ragione se forzatamente) nuove tipologie di utenti (gli arrampicatori indoor, i garisti, i corridori…) che si rinnova con successo il CAI. Anzi a Torino ma non solo) rischieresti di fare esclusivamente dei danni. Per cui, in area subalpina, non tocchiamo niente: qui (e non solo nella SUCAI in senso stretto) di giovani che bussano alla porta ne abbiamo talmente tanti che (PURTROPPO!) non riusciamo a gestirli tutti. Buon proseguimento!

Varie specie; Caianus semplicius , cajanus  erectus, poi il più pericoloso cajanis erectus…ricordo in Antelao primi anni ‘ 80 una via con Icio dal nome molto esplicito e indicativo…” Vecchi inquisitori dementi”…? buone feste a tutti.

Non si è “caiani” perché iscritti al Cai ma per un certo modo di essere, di atteggiarsi, di tirarsela. Esattamente, Luca.E personalmente noto ben più “caianesimo” s.l. oggi che negli ’80.Purtroppo, spesso anche tra i giovani.  

@Dino #139: Quelle di cui parli sono problematiche che avevo sfiorato nel mio primo intervento ieri. Il vero dramma ora per il CAI è l’impegno richiesto a chi vorrebbe integrare le scuole o i gruppi, finendo per scoraggiare i più o portarli ad abbandonare dopo pochi anni. In alcune realtà e per alcune attività marginali, questa emorragia di istruttori è particolarmente grave, con il rischio che le scuole chiudano o almeno alcuni corsi vengano abbandonati. Se c’è un aspetto sotto il quale il CAI si deve “svecchiare” è probabilmente questo. Senza cercare l’appoggio di figure esterne. Si tratta di snellire alcune procedure, riorganizzare l’offerta, offrire maggior flessibilità all’organico. Chiaramente parlo da misero istruttore sezionale e non ho nessuna esperienza a livelli più alti quindi i miei sono solo timidi suggerimenti.Bisogna anche prendere coscienza del fatto che maggiore competitività nel mondo del lavoro e contrazione del potere d’acquisto dei salari significano che energie e tempo libero sono un bene sempre più raro e prezioso.Alcune idee sparse: evitare riunioni continue a discutere del nulla; accettare la responsabilità decisionale assoluta dei direttori di corso nello stabilire calendari, destinazioni e assegnazione degli accompagnatori; non moltiplicare l’offerta di corsi in ambiti che hanno poca attrattiva, anzi ridurli, e non introdurre nuovi corsi in ambiti non tradizionali per la sezione; pianificare le attività partendo dalla effettiva disponibilità dei volontari per coprirle e non solo “perchè va fatto poi qualcuno si trova”; abbandonare, almeno per le piccole sezioni che raramente possono permettersi il pullman, la classica formula delle gite a calendario decise con un anno di anticipo, passando ad attività decise e svolte a stretto giro in base alle condizioni e alle disponibilità. Il tutto con supporto di piattaforme informatiche che si spera funzionino e siano strutturate ergonomicamente…

Se Crovella rimane sulle sue idee antiquate sabaude e non si adegua al nuovo si ritroverà come una balena spiaggiata ?

Crovella scrive : “Se cambiamo le cose in modo brusco e imposto rischiamo solo crisi di rigetto.” La crisi di rigetto la rischiano tutti quelli che continuano ad ascoltare Crovella ?

La mia Scuola, in 60 anni,  ha formato migliaia di persone e tantissimi istruttori. La richiesta di formazione, è sempre fortissima. Concordo con Crovella che solo un forte “protocollo” d’insegnamento, più possibile uniforme e organizzato, può affrontare numeri cosi importanti fornendo ogni anno agli allievi migliaia di giornate di formazione  teorico/pratica magari basica, ma qualitativamente accettabile, controllata, metodica e soprattutto aggiornata. Da non sottovalutare le centinaia di ore d’aggiornamento che ogni Scuola deve obbligatoriamente fornire ai propri istruttori che arricchiscono non solo gli istruttori stessi ma anche tutto l’ambiente che essi frequentano. Chi dall’esterno osserva non conosce il gran lavoro che viene fatto. Spesso si sente l’eco delle preoccupazioni che la “struttura scuole” causa a Presidenti di Sezione e CAI in generale. Negli ultimi 20 anni il carico di impegno e responsabilità di Istruttori, direttori di corso  e di tutta la struttura è diventato davvero molto pesante anche in termini assicurativi. Spesso queste preoccupazioni, fanno intravedere ad alcuni dirigenti del CAI la possibilità di utilizzare GA per questo ruolo. E’ mia opinione che se si vuole mantenere il livello teorico pratico dei corsi CAI ( che io ritengo appena sufficiente) con almeno 12/15 giornate per singolo corso con non più di 2 o 3 allievi per Istruttore, non sia possibile  in termini economici ed organizzativi  sostituire le Scuole e gli Istruttori  CAI, senza escludere per questo la collaborazione con GA. Basta fare qualche piccolo, basico conteggio sul numero di istruttori professionisti necessario e sul relativo costo. E’ anche questa formazione, oltre al buon senso che evita molti incidenti e promuove una frequenza ordinata della montagna. Ora però il reclutamento di istruttori è sempre più difficile. Il carico di responsabilità, impegno e aggiornamento aumenta di anno in anno. Il CAI deve decidere se investire in termini economici in questa struttura o lasciare ad altri, ammesso sia possibile, ( USACLI, FASI etc etc) questo compito snaturando però l’ essenza stessa del Club. Penso che l’ingresso di questi nuovi attori e i recenti sviluppi normativi del nostro mondo non possano più rendere rinviabili decisioni e modifiche sia di tipo economico che organizzativo.

Crovella. Quello che tu dici conferma ciò che ho sempre osservato, non solo per la montagna. Sono le culture, fatte di regole, comportamenti, rituali e relazioni sociali di gruppo che influenzano i comportamenti individuali, più che le parole e i proclami. Proprio per questo è molto difficile cambiare o esportare culture specifiche che sono frutto di lunghi processi evolutivi. Vanno studiate nelle loro componenti e nella loro evoluzione mai poi le realtà locali devono trovare una loro strada. Avendo fatto esperienza di una grande realtà urbana Milano (sebbene nel giurassico) e ora di una piccola realtà ligure, sebbene molto attiva, vedo l’enorme differenza. Anche il modello organizzativo territoriale delle sezioni va forse ripensato. Sui legami che si creano, duraturi nel tempo, tra chi ha fatto parte di gruppi aggreganti “forti” (politici, sociali, sportivi, scolastici, professionali, militari) non ci piove. Lo vedi anche qui, su questo blog, tra chi ha fatto parte del Circo. Ma è normale e osservabile ovunque, a volte pure con qualche strascico di antiche tensioni. Le esperienze di gruppo “forti”, lasciano il segno, anche dopo molti anni, nel bene e nel male. 

Cmq non crediate che le altre scuole e/o iniziative dei CAI torinesi siano da “mollaccioni”. Anche lì i pullman partono alle 06.00 spaccate. Nessuna pieta’. Se arrivi alle 06.01, resti in città. Sta tranquillo che la volta dopo impari a organizzarti alla perfezione e sarai ai pullman addirittira alle 5.45! Questo significa “disciulese”. Si impara a “vivere”, oltre che ad andare in montagna in senso stretto. Chissà, forse è proprio questo risvolto che piace tanto, almeno qui da noi. Pero’ è una caratteristica molto torinese, forse non è apprezzata altrove.

@135 Jerome. Concordo con te e complimenti per quanto fate. Non è una battuta sfotto’: ho girato molte scuole e molte realtà locali e ho constatato che, paradossalmente, è più facile fare  le cose in grande a Torino (non fosse altro che per i numeri umani su cui contare) che cose piccole in realtà piccole.   Sul resto concordo con te. Il rischio di aperture al nuovo e proprio quello di immettere, forzatamente, mentalita “usa e getta”. Il CAI è un mastodonte, procede piano se non pianissimo, metabolizza le cose con tempi lunghi se non lunghissimi, ma è inarrestabile. Per trovarcisi bene dentro al CAI, bisogna avere un particolare mentalità, quella caiana appunto, che non è quella tipica delle “nuove” manifestazioni della montagna. Se cambiamo le cose in modo brusco e imposto rischiamo solo crisi di rigetto. Ciao!

@Crovella: Emilia. Le realtà provinciali, e in particolare quelle più lontane anche geograficamente dalla “vera” montagna, sono un caso a parte e presentano problematiche diverse, e il modello torinese (se esiste con caratteristiche peculiari) non può facilmente esservi esportato. Ripeto che nella mia sezione i giovani ci sono, ma anche fatte le debite proporzioni sul totale di iscritti, sono probabilmente molto meno numerosi e attivi che a Torino. C’è anche lo SBA e persino il corso di freeride, ma non è questo il punto: il CAI non può (e non deve) intercettare la domanda di esperienze usa e getta eccitanti, ad alto potenziale di like ma estemporanee e svuotate di contenuto culturale e valore educativo. I giovani che arrivano e continuano sono esattamente e solo quelli che meritano e che il CAI merita. E’ a questi contesti periferici che mi riferivo affermando che un CAI anche modernizzato (ma non snaturato) non può interessare ai giovani, e così deve restare. Un CAI corsificio on demand sui social network sarebbe solo cringe. 

@128 Savonarola. Interessante quello che scrivi. Curiosità: in che zona risiedi/operi?

@131 Cominetti. O leggi sempre superficialmente o sei proprio fatto male. Non sto a perdere tempo a ri-spiegarti. Se sei davvero interessato a capire, rileggi con più attenzione i mie interventi precedenti, compreso quanto ho scritto stamattina circa il paragone con la Juventus. Anche su quel punto, marginalissimo, hai capito Roma per Toma. Stame bin

@123 Pasini. In parte hai ragione, in parte no. Spiego.   La SUCAI è una struttura complessissina che si è progressivamente perfezionata in oltre 70 anni consecutivi di attività. Tra l’altro preciso che il tutto gira a meraviglia, ma sempre in totale clima di assoluto volontariato.  Ma la SUCAI è anche un polo ideologico e relazionale, un valore sociale che trova fondamento in una certa realtà torinese, molto particolare. Mi ricordo che, qualche tempo fa, proprio tu mi parlasti della Ivy Leage, quell’insieme delle università americane di alto lignaggio, dove lo sport è un motivo sia per affinare le proprie capacità tecniche e organizzative sia per cementare relazioni che poi durano una vita intera e ti servono in tutti i campi. Ecco, a suo modo la Scuola SUCAI è così: fa parte, idealmente, della Ivy Leage, anche se ovviamente è un unicum sabaudo.   La SUCAI affina le capacità individuali. Non c’è dubbio: se stai un po’ di tempo in direzione, acquisti una forma mentis organizzativa che, quando termini il mandato, puoi fare direttamente l’Amministratore Delegato di un’azienda. Ma anche il drmolice allievo viene stimolato dal modello a “disciulese” (piemontesismo per darsi da fare, tirarsi fuori Dall’impaccio  crescere come persona). Dati i grandi numeri, il modello è impietoso: i pullman partono alle 06.00 senza aspettare nessuno e, se ti arrivi alle 06.01, resti a Torino, ma la volta dopo stai sicuro che non ti capita più! Questo modus operandi, una volta recepito per le gite, ti resta dentro per tutta la vita in ogni risvolto dell’esistenza.     Al contempo la SUCAI è anche un  “ambiente” e tu, che hai contezza di cosa significhi questo concetto a Torino, capisci immediatamente cosa intendo. Se io, oggi, ho bisogno di un parere ingegneristico, legale, medico…(tutte cose che non hanno nulla a che fare con la montagna), ho solo l’imbarazzo della scelta fra i miei colleghi istruttori pet scegliete quello cui rivolgermi in modo informale e confidenziale. Vale ovviamente al contrario: io ricevo ogni settimana in media 1-2 telefonate di tale natura, ovviamente su temi di mia competenza professionale. Una specie di Rotary. Un altro aspetto importante è quello delle amicizie che durano per sempre: ancora oggi i miei compagni di gite private sono quelli che ho conosciuto in SUCAI, a volte 30 o 40 anni fa. Inoltre, e non guasta, la SUCAI è un’efficacissima “agenzia matrimoniale” (per unioni che storicamente durano una vita intera, non per avventurette).   Ma quando io, nei giorni scorsi, al Presidente Montani ho fatto riferimento alla comunità torinese del CAI, come caso di successo da analizzare per eventualmente esplorarlo in tutta Italia, non prendevo neppure in considerazione la sola SUCAI. Perché la SUCAI è un unicum che vale solo qui, qui a Torino, anzi in un certo spaccato torinese con una certa mentalità torinese, e quindi non può esser replicata altrove.   Faccevo invece riferimento all’intera realtà CAI dell’area torinese, una realtà che è ugualmente di successo senza avere le caratteristiche esasperate e un po’ maniacali (se osservate dall’esterno, internamente sono visite in piena armonia) della SUCAI. Le altre scuole, sia cittadine che dell’hinterland, sono tutte pimpanti e vivaci e hanno giovani in gran numero. I gruppi giovanili sono in pieno fermento. Le gite sociali di ogni disciplina e difficoltà hanno iscritti a mani basse. Di conseguenza la realtà subalpina è talmente dinamica e “fresca” che tutta ‘sta crisi del CAI nazionale io non riesco proprio a immaginarla.   O l’area torinese e’ davvero un mondo a se ‘, a prescindere dalla SUCAI, o nel resto d’Italia non ci sono pari capacità organizzative. Io credo che a livello nazionale sia una questione motivazionale e valoriale. Nel torinese è “bello” far parte del CAI. Pet definizione. Temo invece che altrove vi sia una prevenzione di fondo: il CAI è percepito come “vecchio” a prescindere.   Come invertire questo modo di vedere il CAI? A me, subalpino, non viene in mente altro che: studiamo il caso torinese (quello generale, non quello SUCAI),  visto che qui “e’ bello far parte del CAI”, e, se possibile, replichiamolo altrove. Tuttavia se questa ipotesi non convince e se ci sono altre strategie, io non ho preclusioni a esaminarle.   Da parte mia continuo a non esser assolutamente convinto, però, che la soluzione sia immettere forzatamente nel CAI i climber indoor o i “garisti” scialpinistici o corsaioli. Non hanno.la testa da CAI e il CAI li percepirebbe come un”imposizione indigesta. Ciao!

Ma dove vivi tu Crovella? Chi vale non ha bisogno di blasoni e di mettersi in mostra come fai tu. ‘Sta Sucai e la sua storia vanno bene, ma non credo faccia una gran figura con un un elemento come te. Abbi pazienza ma te le cerchi col lanternino.  Non so nulla neppure di calcio ma so che la Juventus ultimamente è in un ciclone giudiziario per imbrogli di vario genere, quindi il paragone che hai fatto è perlomeno infelice. Ma guarda ‘sti caiani…. Sono socio Cai, ma caiano mai. Ciao

Mi spiace per chi crede alla teoria ma la montagna la può trasmettere, senza bisogno di tanti discorsi, solo chi la vive giornalmente. Il resto sono tutti tentativi e come tali qualcuno può casualmente andare a segno.

@124 e 127. Specie Cominetti, avete preso Roma per toma. Il mio stupore è riferito al fatto che una GA e un istruttore di scialpinismo, ancorché di una scuola più piccola, non sappiano neppure come sia la struttura della Scuola SUCAI, che è la Juventus delle Scuole di scialpinismo. Ma dove vivete?   Tutto è derivato da vs precedenti e sciocche battute sull’eventuale presenza di snowboarder fra noi sucaini… e non sapete neppure che è stata la SUCAI a inventare per prima, 15 anni fa circa, i Corsi SBA, che ha un corso SBA ogni anno diviso in due moduli, il tutto da 18 anni consecutivi e con un organico istruttori specifico di circa 25 persone, di cui molte titolate. Prima di fare stupide battute  informatevi a puntino. PS: la questione culturale circa Guide (“ignoranti” circa aspetto culturale della montagna) non mi appartiene per nulla, non ne ho minimamente parlato stamattina, per cui è esclusivo frutto di lettura superficiale da parte di Cominetti. Salutation 

@Matteo #115: Se si scoprisse che i miei sono luoghi comune ne sarei felice, tuttavia la tua esperienza personale non è statisticamente significativa e portare esempi in apparenza contrari non è sufficiente a inficiare la validità della mia analisi riguardo alla direzione che sta prendendo la società nel suo complesso.In secondo luogo, non hai nemmeno enunciato esempi contrari bensì assolutamente in linea con quanto ho scritto… io ho scritto che il CAI non può interessare i giovani, e tu mi porti un esempio di alcuni giovani che hanno iniziato in montagna proprio NON tramite il CAI! Poi che questi soggetti siano prudenti o scavezzacollo, che vadano a scalare anche con i vecchi oppure no, poco importa. Semmai importerebbe delle loro motivazioni e della loro eventuale capacità di sviluppare l’andare in montagna come un progetto a lungo termine che possa trasformarsi realmente nel corso degli anni in uno stile di vita, nel senso di impattare tutti i campi dell’esistenza in senso positivo, non nel senso di andare in giro con il van. Ma si sa che su internet c’è l’abitudine a rispondere ai commenti dopo aver letto solo le prime due righe e compreso nulla.Detto ciò, essendo un ardente sostenitore del crovellismo, posso più sinteticamente chiarire il mio punto di vista appoggiandomi all’esempio della scuola SUCAI menzionata dal nostro (della quale NON faccio parte): questo modo di approcciare la montagna, caianissimo ma al passo con i tempi, in grado di veicolare valori e cultura, non potrà MAI interessare i giovani al punto tale di modificare in maniera sostanziale l’organico e la composizione anagrafica delle sezioni. Ed è giusto così.E già che ci sono vorrei rispondere anche a Cominetti #124, persona che non conosco e a priori rispetto. Io sono uno che nel 90% dei casi consiglia alla gente che vuole iniziare ad andare in montagna seriamente di rivolgersi piuttosto che al CAI alle guide, che almeno dove vivo io hanno programmi più snelli e flessibili e una proposta più diversificata e adatta alle più disparate esigenze.  Proprio perchè so che la gente tendenzialmente ha poco tempo da dedicare, vuole provare tutto e vuole i risultati subito. Quando Crovella parlava di cultura non intendeva certamente raccontare due aneddoti di storia dell’alpinismo o magari qualche pillola di etica durante le uscite e i corsi con i clienti, ma una cultura a tutto tondo della montagna che abbracci tutti gli aspetti, qualcosa che può essere assorbito solo tramite la frequentazione per un lungo periodo di tempo di un ambiente dove militano molte persone esperte, entusiaste e con le esperienze e interessi più disparati. Come solo il CAI può essere.Io, partecipando (ai margini) ai gruppi ambientali CAI, sono costantemente atterrito dal constatare la dilagante ignoranza dei neoiscritti medi riguardo ai temi ambientali, nonostante si tratti di gente che si dichiara (ovviamente) amante della natura. Per fortuna progredendo da un corso all’altro, col ripetere delle stesse nozioni a ogni lezione ambientale, con l’aneddoto che gli viene raccontato alle uscite, qualcosa gli entra in testa e magari avremo un po’ più persone edotte anche delle tematiche ambientali. Questo esempio si può applicare a tutti gli altri aspetti di cui le sezioni si occupano: storico, tutela del patrimonio, sentieri, formazione, giovani, disabilità, salute…

Crovella. Non mi risulta che la storia della SUCAI Torino sia fra le competenze richieste per ottenere un diploma, una laurea o anche solo per fare l’istruttore – peraltro sezionale – di scialpinismo. L’ignoranza per me è altro.  P.s. non leggo risposte superiori alle 10 righe.

Era così ribelle che calzava esclusivamente “Ribelle”!

Non si è “caiani” perché iscritti al Cai ma per un certo modo di essere, di atteggiarsi, di tirarsela.

Grazie Crovella, sintetico come sempre!   A parte la tiritera degli acronimi da sempre tanto cara al Cai, mi stupisce la tua presunzione d’ignoranza altrui quando sottolinei banalità scontatissime come l’aspetto culturale, storico, ecc. dei corsi Cai che ovviamente (secondo te) noi guide alpine ignoranti tese al solo macinare metri di dislivello, non daremmo nei confronti di chi accompagnamo.  Siccome anche le guide organizzano corsi è logico che si occupino di TUTTI gli aspetti che il fare scialpinismo comporta. Ma non lo sbandieriamo come se fossimo gli unici a farlo perché è sottinteso che lo si faccia. Fortunatamente non soffro di quel complesso di non so cosa, che evidentemente tu hai quando attacchi i tuoi interlocutori affinché non ti becchino con le mani nella marmellata. Lo spirito di ribellione che tu tanto aborri non è altro che essere intellettualmente vispi e non prendere tutto come oro colato. Se i miei figli non fossero ribelli mi preoccuperei. Spero di essermi spiegato.

Il caso presentato da Crovella sulle attività di scialpinismo&affini nell’ambito del Cai Torino è un caso di scuola. Un’offerta formativa articolata, un “marchio” di elevata reputazione, un bacino di utenza esteso e di consolidata tradizione generano una domanda abbondante che si rinnova periodicamente. La gestione di un modello con queste caratteristiche richiede notevoli capacità organizzative e risorse umane (insegnanti & staff) adeguate, per qualità e quantità. Certamente non è un modello alla portata di tutte le sezioni e gli ambienti in cui opera il Cai. Se la nuova dirigenza vuole realizzare un piano credibile di rinnovamento dovrebbe, a mio parere, studiare i casi di eccellenza e al tempo stesso adottare un approccio realistico e diversificato territorialmente, partendo da un’analisi delle diverse realtà e tradizioni locali. Anche la dimensione territoriale delle sezioni richiede forse una riflessione. Su basi troppo piccole le possibilità di azione sono linitate. Interventi generalisti penso siano poco efficaci. Che attività formative di questo tipo veicolino anche valori (senza esagerare troppo rispetto al peso di altre esperienze) è indubitabile. Penso che a trasmetterli siano più l’esempio e l’influenza sociale del gruppo (quello che i pedagogisti chiamano “apprendimento situato”) che non i proclami e le parole, spesso ormai consunte dall’uso ripetitivo e dalla retorica. 

Ah…mi sono dimenticato (tante sono le cose che facciamo!) di un risvolto importantissimo dell’attività della Scuola SUCAI: quello “culturale”, attraverso elaborazione di libri, testi, video,  nonché lezioni teoriche ed eventi vari come conferenze, tavole rotonde ecc, soprattutto a disposizione dei nostri allievi ma aperte a tutti.   Educare gli allievi non lo si ottiene solo con l’insegnare il nodino o la ricerca ARTVA, né facendo dislivelli mastodontici o scendendo pendii vertiginosi. Certo quelle cose contano anche loro, ma educare (e-ducere: tirare fuori, cioè fuori dall’ignoranza – termine che va inteso nel suo significato latino, cioè di “non essere al corrente della materia”), ebbene “educare”  è un’attività molto complessa, con tempi non brevi e comporta anche risvolti collaterali, appunto culturali, comportamentali, ideologici. E’ un’attività talmente complessa che diventa un’educazione a tutto tondo: imparando ad andare in montagna con lo stile SUCAI, impari un particolare stile di vita che ti porti dietro per tutta l’esistenza, anche in campi (lavoro, famiglia, impegno civile ecc) che non sono direttamente collegati alla montagna. Chi si iscrive da noi, proprio questa cosa qui “cerca”, non il semplice fare gite difficili o imparare il nodino ultima versione.   Inoltre, dalla notte dei tempi, la Scuola SUCAI incide sull’evoluzione dello scialpinismo italiano, specie nel risvolto didattico, ma anche in quello tecnico generale. In questa particolare periodo, un sucaino (nostro Direttore della Scuola circa 15 anni fa) è attualmente Direttore della Scuola Centrale CAI di Alpinismo-Scialpinismo-Arrampicata. Non dico che sia solo lui a scrivere i manuali e i protocolli di aggiornamento periodico dei contenuti didattici (per l’intero mondo delle Scuole CAI italiane, di ogni disciplina), visto che la Scuola Centrale comprende mi pare almeno 30 persone, me certo il Direttore in carica suggella tutti i documenti che escono dalla Scuola Centrale, per cui non può certo esserne estraneo. Tali documenti, attraverso le Scuole Regionali CAI, giungono ad ogni Direttore di Scuola CAI, non solo nel comparto dello scialpinismo. I Direttori delle singole Scuole sezionali debbono poi attivarsi (attraverso aggiornamenti ecc) per diffondere tali nozioni nell’organico delle proprie scuole. Di conseguenza una semplice variazione del nodino, decisa nella Scuola Centrale CAI, arriva a cascata a tutti gli istruttori CAI e da costoro agli allievi. In tale modi si persegue l’assoluta omogeneità del messaggio didattico CAI. Poiché sucaini sono normalmente presenti nella Scuola Centrale CAI (in particolare ora con il ruolo di Direttore della stessa), tutto ciò fa capire quanto la Scuola SUCAI sia rilevante a livello di elaborazione del modello didattico del CAI.   Non conoscere nulla della Scuola SUCAI Torino non è un merito (come i “ribelli” alla caianaggine immaginano), ma un notevole limite individuale: è come se uno che si spaccia esperto di calcio, non sapesse nulla della Juventus. Certo fare il paragono, oggi, con la Vecchia Signora calcistica può non apparire azzeccatissimo, visto che in questi giorni al Juve non attraversa un momento brillantissimo, ma lo risolverà a stretto giro e la sua storia ultracentenaria è un totem indiscutibile.   Pertanto prima di parlare a vanvera di caianaggine e ultraconsevatori del CAI, informatevi a fondo, sennò rischiate figure ridicole. Ciao!

Da 118 a 120 (Cominetti e Skeno). Stupisce che guide alpine e istruttori di altre scuole di scialpinsimo non conoscano nulla della SUCAI Torino.   Anche nello specifico campo dello snowboard la Scuola SUCAI  è all’avanguardia: infatti la SUCAI è stata la prima scuola in Italia a organizzare un vero e proprio Corso di Snowboard Alpinismo (Corso SBA), tuttora esistente e bello pimpante e florido.   L’iniziativa SBA in SUCAI risale al 2005 (primi esperimenti), con varo ufficiale del Corso nel 2007 e successivo consolidamento: è merito di specifiche persone, che si sono date da fare fin da allora (e successivamente nel consolidamento dell’attività), ma l’intero organico della Scuola ha contribuito quanto meno NON mettendo bastoni fra le ruote (discorso che ho fatto nei gg scorsi: le novità devono inserirsi in modo armonico, sennò creano danni).   Da allora (2007) l’attività SBA nella SUCAI non ha perso un colpo. E’ un corso in più, parallelo a quelli di scialpinismo. Ha un suo direttore, una sua piccola direzione (team organizzatore), un suo specifico organico istruttori (mi pare al momento di 20-25 individui (m/f). tutti istruttori SBA AUTOPRODOTTI internamente, cioè sono entrati come allievi e sono “cresciuti” anno dopo anno).   Il Corso SBA è organizzato, ogni anno, in due moduli: SBA1 (iniziazione) e SBA2 (perfezionamento), per un  totale di 9 uscite stagionali, se non sbaglio. Al Corso SBA della SUCAI sono ammessi sia allievi che usano ciaspole in salita sia allievi con splitboard. La direzione è attenta nella composizione dei gruppi in modo tale da assegnare agli allievi, pur all’interno di un turn over fra gli stessi (per finalità di socializzazione e aggregazione) istruttori dotati dell’attrezzatura (ciaspole o splitboard) analoga a quella degli allievi di giornata. I nostri istruttori SBA sono tutti in grado di fare gite sia con modalità ciaspole che splitboard.   La Scuola SUCAI Torino, la prima ad esser stata fondata in tutta Europa (1951-52) e da allora operativa senza soluzioni di continuità, ha un organico istruttori complessivo che penso sfiori le 100 unita (alcuni sono più operativi altri – come il sottoscritto – al momento contribuiscono in compiti collaterali ma ugualmente importanti per l’educazione dei nostri allievi.  Tutti i nostri istruttori sono autoprodotti (cioè entrano come allievi e crescono gradino dopo gradino). Non prendiamo invece istruttori “già fatti” dall’esterno: non ne abbiamo necessità e siamo convinti che è più forte il rischio di “cresi di rigetto” che di effettivo valore aggiunto a quanto già sviluppato dalla Scuola.   Credo che abbiamo la maggior concentrazione di istruttori titolati di tutta Italia, sicuramente nel campo delle Scuole di scialpinismo, ma forse anche confrontandoci con qualsiasi altra Scuola, comprese quelle di alpinismo. Incidentalmente (nel senso che non consegue ad un nostro obiettivo strutturale) nell’organico abbiamo anche degli Accademici.   Giusto per completare l’analisi puntuale e far capire a tutti di che “corazzata” stiamo parlando, aggiungo che, per la stagione 2023, la SUCAI organizza i seguenti corsi:   – SA1 Invernale (iniziazione allo scialpinismo, gennaio-marzo, quest’anno si parte con 90 allievi): 6 uscite di cui una doppia (sabato-domenica). – SA1 Primaverile (prosecuzione fino a maggio per chi non accede all’SA2): 4 uscite, tutte in weekend. Stimata circa una 50ina di allievi, “derivano” dai 90 iniziali.   – SA2 (perfezionamento, il numero degli allievi è drasticamente ridotto a 25 -30, tramite adeguata selezione): 5 uscite in week end fino a maggio, target tecnici più elevati (ghiacciaio, altra quota, dislivelli più consistenti, in una parola gite OSA se le condizioni lo consentono)    – SA3 (corso su invito per allievi dell’anno o di anni precedenti, trattasi di perfezionamento e “pre-selezione” per prossimi aiuto istruttori): 3 o 4 uscite fra fine maggio e fine giugno. Target tecnici, sia sciistici che alpinistici, piuttosto elevati. Visto che Comninetti e Skeno, che hanno condotto il discorso su questo tema, sono liguri e quindi conoscono le Marittime, do loro un riferimento tecnico, relativo ad un’uscita realizzata nell’ultima edizione del Corso SA3 (che non si fa tutti gli anni): istruttori e allievi hanno dormito al Bozano, il giorno dopo Canale della Forcella, evidentemente sci a spalle e ramponi ai piedi, poi discesa dalla normale (sci a spalle) dell’Argentera fino al Passo dei Detriti e dal Passo ininterrottamente in sci fino al parcheggio sotto al Bozano. Il primo tratto sotto la Passo dei Detriti non è proprio “piatto” da fare in sci. Mi pare che fossero in una quindicina di allievi e 5 o 6 istruttori. Giusto per far capire i livelli tecnici su cui si muove la Scuola. Livelli tecnici sia sciistici che alpinistici. Senza aver partecipato all’SA3 è più ostico, oggi come oggi, entrare come nuovo aiuto-istruttore. Non impossibile, perché abbiamo bisogno anche di individui magari meno tecnici ma altrettanto didattici e soprattutto dotati di pazienza per le primissime uscite stagionali, ma certo che se fai l’SA3 con profitto entri direttamente in organico.     A questi Corso di scialpinismo, si aggiungono in parallelo: – SBA1 (snowboard introduzione, gennaio-marzo) uscite in giornate tranne l’ultima week end, circa 20 allievi   SBA2 (perfezionamento, aprile-maggio), 4 uscite, c’è una certa selezione rispetto agli allievi dell’SBA1, perché anche in questo caso crescono un po’ i target tecnici (come per l’SA2 rispetto asll’SA1), a naso direi 15 allievi.   A tutto ciò si affianca l’attività della Sottosezione SUCAI Torino (che è una cosa diversa rispetto alla Suola, anche se spesso gli organizzatori sono gli stessi: gran culo organizzativo per costoro, io ho già dato per anni ed anni e ora sto in tribuna): gite sociali (dove si può partecipare sia con sci che con tavola), corso fuoripista (oggi denominato Freeride, utilizzo impianti e discese fuoripista) e un sacco di altre cose (NB: la Sottosezione organizza anche una sua attività estiva, ogni anno).   Morale: essere una struttura con mentalità “caiana” non significa obbligatoriamente essere dei merenderos.

119, belìn, lo so che i liguri sono avanti. E spesso ingiustamente sotto stimati, soprattutto da loro stessi. 

Nella non-so-quanto-blasonata scuola scialpinismo Ligure la splitboard è ammessa ed abbiamo un aspirante istruttore snowboarder.  

Crovella una curiosità.  Ma nella blasonatissima scuola sabauda accettate anche snowboarder alpinisti che usano la splitboard? O sono considerati cannibali?

Tanto per alleggerire. Giorno di Natale di quando ero un po’ più giovane: gita in mtb  poi pranzo e poi in falesia a fare a gara a chi fa il grado più alto, o il tiro x più velocemente dopo, appunto, l”ingozzata natalizia. Fantastico! Siccome sono e spero di restare un immaturo, questa storia dei vecchi e dei giovani caioti mi sa solo di luogo comune polveroso.  Un mese fa è diventato guida alpina un mio amico ventottenne (io lo sono diventato a 23 anni, ce bello era stato!). Uno con cui vado abitualmente a scalare o con gli sci. Anche il mio socio Franz Salvarerra è un ragazzo dell’89. Lavoriamo assieme come guide e andiamo in montagna a divertirci quando ne abbiamo il tempo. Gli altri miei 3 amici con cui scalo e scio spesso sono nati tra il ’58 e il ’70. Il neo guida, appena fresco di nomina mi ha mandato una foto dove appariva con tutti gli allievi promossi e i loro istruttori. Tutti alpinisti coi controcoglioni, specifico, e un messaggio che non riporto qui solo per pudore, in cui mi diceva delle prime volte che l’ho portato in montagna e di quello che ha imparato da me, ormai vecchia guida… Mi ha commosso e ancora una volta mi ha ricordato che una delle cose belle dell’alpinismo è quella di non risentire dell’età di chi compone cordate che sono tali anche nella vita di tutti i giorni. Parlo di uno che fa il 7c trad a vista e che a 16 anni è stato campione mondiale di snowboard slope style. Fortissimo, modesto e prudente, sono fiero di avere amici così. Le generazioni sono fatte per essere mescolate, come le etnie (non dico razze sennò qualcuno m’attacca il pistolotto dell’altra volta) perché ci si arricchisce l’un l’altro.  Si va a tiri alterni e se ce n’è uno particolarmente duro comanda il giovane. Come nella vita. È così che si evolve e si tiene duro, se serve. Altro che cannibali. 

112 Matteo. Non è fondata l’accusa che mi rivolgi, leggi bene il 110 a Battimelli.   Io resto fermamente convinto che il CAI non possa che essere caiano fino al midollo, sennò che CAI è? Tuttavia se si creano spazi per esperienze alternative, come quelle raccontate da Battimelli (ma che per gli storici/analisti come me sono note da tempo immemore), da parte mia non c’è nessun ostracismo. Occorre però, come avvenuto a Roma, che la cosa nasca e cresca in modo spontaneo e genuino, il che presuppone l’esistenza di un gruppo di interessati e non di un singolo interessato, e inoltre che il tutto sia armonico all’interno della Sezione CAI di riferimento. Evidentemente a Roma così è stato e va benissimo. Ma invece mi oppongo con forza all’ eventuale “obbligatorietà” che ogni Sezione abbia, volente o nolente, una vetrina di quel tipo. Dove non è sentita (o non è sentita dalla maggioranza dei soci CAI già in essere in quella Sezione), tale esperienza sarebbe una forzatura e produrrebbe solo fastidi, dissidi e danni al CAI. Infatti nei contesti storicamente caiani (come, a puro titolo di esempio, la Scuola di scialpinismo cui appartengo, ma anche l’altra scuola scialp torinese non scherza…), l’introduzione forzata di quella mentalità “innovativa” produrrebbe solo crisi di rigetto e il rischio di perdere decine se non centinaia di soci CAI, magari iscritti da decenni e decenni, solo per correre dietro a qualcosa di “moderno” e a quattro gatti cui piace quella ventata innovativa.   Meglio stare con i piedi per terra: nelle “aree” caiane, si lasci totalmente inalterato il CAI caiano, senza tentare esperimenti scriteriati. Voi avete difficoltà ad accettare il principio che il CAI caiano possa piacere anche ai giovani. Nella nostra scuola, “caianissima” per definizione, abbiamo sold out di iscrizioni tutti gli anni (e moltissimi sono i giovani e i giovanissimi): ciò significa che c’è domanda di caianità, anche da parte di giovani e giovanissimi.   Questi giovani, io sono arci sicuro (perché in una certa misura sono nostri figli anagrafici e loro amici/che), si iscrivono proprio perché l’ambiente è marcatamente caiano: se l’ambiente e l’ideologia venissero cambiati, molti nostri iscritti sarebbero disorientati e probabilmente non si iscriverebbero alla “nuova” scuola.   Se l’attuale scuola, in ipotesi provocatoria, non si dovesse trovare bene nell’eventuale “nuovo” CAI (quello da voi vagheggiato), noi la sposteremmo: a Torino abbiamo solo l’imbarazzo della scelta fra innumerevoli istituzioni “montanare” che ci farebbero ponti d’oro. Extrema ratio costituiremmo una ASD: abbiamo tutti i numeri culturali, professionali e finanziari per farlo.   Ebbene in questa ipotesi (sia ben chiaro è solo un esempio “provocatorio”, non vogliamo assolutamente abbandonare il CAI Torino cui siamo legatissimi), io sono convintissimo che il 95% dei nostri allievi ci seguirebbe, abbandonando il “nuovo” CAI. Quindi alla fine a perderci sarebbe solo il CAI: non avrebbe più, nella sua faretra istituzionale, una Scuola blasonatissima e magari perderebbe decine se non centinaia di soci…

Jerome Savonarola: difficile trovare un’accozzaglia di luoghi comuni così completa. Io, in ufficio negli ultimi 7-8 anni, ho incontrato almeno quattro giovani che hanno iniziato sulla plastica, rigorosamente fuori da qualsiasi corso CAI, e vogliono arrampicare in montagna. Di due sono diventato amico e diverse volte siamo andati insieme. Se c’è qualcosa che mi desta perplessità in loro è l’eccesso di prudenza: in falesia sono su gradi che io manco dipinto, stabilmente con il 7 davanti, in montagna temono e si preparano per una via di 200m di V classico come se dovessero fare il Badile…però è molto gratificante per me e per la mia autostima cigolante di mediocre (per quanto appassionato) coniglio, quando mi chiedono consigli e info sulle vie o mi mandano davanti! ?

Cogliendo gli auguri del 112 e dei rischi alimentari connessi alla giornata odierna, non posso non ricordare alcune parole lette in un libercolo di qualche anno fa:  “A quanto ricordo, perfino dopo il pranzo di Natale, trovavo qualche ora per fare trazioni nel garage dei miei…..” da Topo di Falesia – Jerry Moffat Meditate, meditate.  

Più di 100 commenti, rinuncio a leggerli tutti ma mi pare che la gran parte siano di vecchi, ad un post dove si parla anche di giovani. Non rinuncio comunque a dire la mia nella speranza che qualcuno di coloro che leggono e che magari hanno un qualche ruolo in una sezione CAI possa trovare un piccolo spunto di riflessione. Io non sono più giovane, lo sono stato (in seno a una sezione CAI) in un’epoca ancora recente ma totalmente diversa, prima dell’avvento dei social. Frequento ancora la mia sezione, e vedo i giovani avvicinarsi alla montagna: abbiamo pure un gruppo “juniores”, sono pochissimi ma ci sono. Il fatto è che viviamo in un’epoca e in una società votate all’apparenza, senza valori, caratterizzate da un giovanilismo estremo e ottuso dove essere giovani è considerato un valore in sè. L’epoca in cui i ragazzi si avvicinavano alla montagna evitando il CAI perchè la vedevano come un’associazione di vecchi rompicoglioni e usavano l’appellativo “caiano” a mò di insulto è finita da tempo. I giovani di oggi non sono interessati a sviluppare una dialettica riguardo all’andare in montagna, a trovare nuovi modi innovativi per fare alpinismo… vedono su instagram qualcuno con un paio di belle chiappe o muscoli tatuati attaccato a una falesia in riva al mare, o che sfreccia su pendii immacolati con sci da 1000€ che usi una volta all’anno, e vogliono imitarlo; non interessa tanto praticare l’attività nè tantomeno approfondirne gli aspetti culturali, quanto acquisire i segni esteriori dello stile di vita legato a quell’attività. Un tempo un ventenne comprava un furgone WV con 300mila km e andava a viverci nel parcheggio a La Grave o Buoux perchè non aveva soldi e quello stile di vita era l’unico che gli consentiva di praticare le attività scelte con la frequenza e dedizione richiesta. Oggi i ventenni si fanno comprare dai genitori furgoni camperizzati che costano come tre anni di weekend in albergo 3 stelle e ristorante, per poi postare su instagram che fanno la van life. In questo contesto il CAI è portatore di un modo di andare in montagna totalmente incompatibile con l’essere giovani, ed è giusto così. Frequentare il CAI con profitto significa e richiede di essere in grado di avere valori, obbiettivi stabili e portare avanti progetti a lungo termine, cosa che i giovani di oggi non sono in grado di fare (con l’unica eccezione di coloro che si avvicinano alle competizioni di arrampicata, che però nulla hanno a che vedere con la montagna e il CAI); e lasciamo che sia così. I giovani cresceranno e matureranno (si spera) e approderanno al sodalizio ad un’età più confacente. Il CAI non deve attrarre i giovani, invece deve cercare di non dissuadere i “non più giovani” nella fascia 30-50 che potrebbero portare linfa vitale nelle sezioni, e invece sono ostracizzati dallo zoccolo duro degli over60 che non vogliono perdere la loro posizione e visibilità, e scoraggiati dal carico di lavoro che spesso gli è richiesto, più compatibile con una vita da pensionati che con chi ha lavoro e famiglia.

“Ma allora perché molti di voi vogliono togliere ai sabaudissimi  come me (numerosi, pimpanti e molto “istituzinali”) il nostro CAI caiano?” Questo si chiama rigirare la frittata. Nessuno vuole togliere alcunché, ma semmai sei tu che vuoi elevare ad assoluti i tuoi criteri e a voler imporre agli altri la tua visione e i tuoi giudizi, attraverso l’infinita, verbosa ripetizione dei tuoi pregiudizi infondati su tutine, cannibbali, obbedienza pronta, cieca e assoluta, patenti e libretti e elevare a verità assoluta le tue impressioni, che ti affanni a definire “personali”, ma subito dopo diventano “statisticamente rappresentative” (il che è una contraddizione in termini) e poi assurgono a valore generale.   NOTA PERSONALE: Battimelli, se quando vieni al nord non mi avvisi per condividere le libagioni del Penotti, il termine corcare di mazzate assurgerà a nuove e inarrivabili vette!   E a tutti un buon natale (anche se personalmente sono già in overdose mangiatoria…)

@92 Genoria. Una precisazione: parlo sempre e solo a titolo personale. Tuttavia sono un soggetto statisticamente rappresentativo del modo di pensare  qui abbastanza diffuso. Ma sia chiaro che nessuna carica istituzionale va confusa con l”esposizione delle mie tesi.   Sull”altro punto fai Confusione tra due piani molto diversi. Una cosa è l’analisi sul CAI,  un’altra le mie tesi sulla preferibilita’ di una sensibile riduzione della presenza antropica in montagna. All’interno dj questo secondo tema (che NON è il tema dell’articolo), io non escludo che si possa arrivare a meccanismi di selezione degli accessi. Fea questi meccanismi, uno potrebbe essere quello delle patenti. Se arriveremo a quel punto, ci dovrà essere una struttura che rilascerà tali patenti. Si potrà optare per una struttura oggi non esistente, magari Tutta incentrata sul coinvolgimento delle Guide. Ma  conoscendo la natura italica, io non escludo che il legislatore possa essere tentato da prendere la struttura didattica del CAI, che esiste già  da 90 anni, è testata e diffusa capillarmente, e così oromuoverla in quel ruolo. In ogni caso si tratta di riflessioni importanti ma ancora a tavolino. Queste ultime riflessioni, che qui ho esposto con disponibilità caiana perche’ mi fa piacere contribuire a farti capire le cose, sono fuori tema rispetto all’articolo, per cui e bene non prendere strade che allontanano dal tema del giorno. Stame bin.

Battimelli. So, per aver letto a lungo su di voi, della  storia romana. Diversa, diversissima dalla parte più sabauda (quella cui appartenho) del CAI torinese, ma ugualmente di successo e di gioia per chi vi partecipa. Ma appunto, tutti gli esterni al CAI gridano alla crisi del CAI e poi salta fuori che in realtà un sacco di gente si diverte nel CAI: i sabaudi in modo sabaudo, i romani in modo romano. Basta rispettarci reciprocamente. Se io togliessi a te, Battimelli, il  CAI “romano”, tu ti ribelleresti.  Giusto. Ma allora perché molti di voi vogliono togliere ai sabaudissimi  come me (numerosi, pimpanti e molto “istituzinali”) il nostro CAI caiano? A noi il CAI piace così, caianissimo, perché siamo caiani dalla nascita e, fin da bambini, viviamo con approccio “caiano” in tutti i risvolti dell’esistenza, anche quelli che  nulla hanno a che fare con la montagna. Ecco perché, per quello spaccato socio-culturale cui appartengo, il CAI è un valore in sé. L’ho già detto e non me ne vergogno: andare in montagna e far parte del CAI sono due cose autonome, parallele, anche se collegate, ma indipendenti. Io mi do da fare nel CAI perché mi piace il CAI in quanto tale, non per fare montagna conil CAI : se voglio fare una gita/arrampicata, posso andarci per conto mio quando voglio. Quindi che ci siano più modi, tutti positivi, di fare CAI è assodato. Fra noi una solo cosa: rispettiamo i diversi approccio.   Discorso diverso verso chi (a puro titolo di esempio i Cominetti di turno) dall’esterno, critica TUTTO il CAI pretendendo che il CAI cambi e si snaturi. A questi signori io dico: se  il CAI in quanto tale non vi piace, lasciateci stare, fate la vostra strada, nessuno di noi vi corre dietro.   Auguri a tutti.

Come tutte le generalizzazioni, quella sul caiano è semplicemente stupida. Il Club Alpino non si chiama Italiano a caso. C’è dentro di tutto. Ottimi tecnici, pessimi istruttori, presidenti di sezione dalle mani lunghe, altri onestissimi, volontari che si fanno il mazzo gratis e continuamente ed anche cialtroni variegati. Io però sono una persona semplice e pratica. Una “ronchia” alpinisticamente ed un bravo torrentista. Nel mio piccolo contribuisco alla vita di sezione tenendo corsi di torrentismo e gestendo la rivista sezionale. Grazie alla scuola Figari a 20 anni ho imparato (costo del corso 110000 lire se non ricordo male, mia madre mi boicottò e dovetti dare fondo al cassetto dei regali della nonna) quello che serviva per arrampicare. A 40 anni ho imparato lo scialpinismo, pagando un corso 200 euro. Faccio gite su sentieri mantenuti e dal CAI, dormo in rifugi e bivacchi gestiti dal CAI. Non vedo molte altre associazioni che fanno altrettanto. Si potrebbe fare meglio? Sicuramente. Il CAI è vecchio? Sicuramente (alla Ligure età media 50,3 e io a 53 anni sono uno dei “giovani” del direttivo). Fra 20 anni il CAI vedrà le sezioni e le scuole chiudersi una dietro l’altra, per mancanza di dirigenti e istruttori? Probabile, ma non penso che sarà un bene. Io soluzioni non ne ho.   P.s. qua una serie di numeri sulla realtà della mia sezione, pag. 3 https://issuu.com/cailigure/docs/32_-_2-2022 P.s. 2 nelle assicurazioni guardare bene massimali e franchigie          

@107. Giuseppe, “anche se ai corsi ho dato tanto, non è leale chiamarmi santo”. Sarai perdonato se, la prossima volta che salgo in Sabaudia, appronterai adeguate libagioni. Per ora, considerati corcato di mazzate.

Sono iscritto al CAI dal 1964, ho fatto il corso di roccia nel 1967 e dall’anno seguente sono nell’organico della scuola “Paolo Consiglio”, di cui sono attualmente direttore (e sì, dopo più di cinquant’anni

Dopo aver letto questo mi verrebbe da dire Battimelli santo subito. Siccome lo conosco, probabilmente mi corcherebbe di mazzate qundi non lo dico ma lo penso. ?  

Mi innesto io visto che ho lanciato il sasso. Per curioso 99 Non concordo con Massari: un arrampicatore anche se mediocre non deve mai sbagliare il nodo che vuole fare all’imbrago prima di partire, qualsiasi nodo esso sia anche il più fantasioso, dico mai ripeto mai, confermo mai. La contro asola e un po come in fase di contratto alzare il massimale di risarcimento dell’assicurazione in caso di morte da 5miliono a 5,5 milioni di euro. Nulla più! Attendo smentite. 

Il bulino (gassa d’amante, chiamata anche nodo di Bulin, nodo bolina, nodo bulino, cappio del bombardiere, o semplicemente gassa) è ottimo per il traino di auto o altro perchè, anche se è stato sottoposto a forte tensione, si scioglie facilmente a differenza del nodo a 8 (savoia). Provare per credere, quindi per legarmi 8 a vita.   

“Quanto alla continuazione, che dire… grazie per l’augurio, io ci provo, anche se ragioni strettamente anagrafiche fanno ritenere che sarà più una continuazione di ricordi che altro. Ma finché riesco a staccarmi da terra…”   Ma va là, Battimo, che sei in partenza per una vacanza natalizia arrampicatoria… Come diceva mia nonna te mandi minga a dà via el cu perché te foò un piaseé   Divertitevi, bastardi!

Così tanto per chiacchierare un po’… @98 Massari. Ciao Giova, non credo ci siamo mai incontrati, ma qui la storia della  libera di Kajagogo e  di Polvere di stelle  è ancora una di quelle che si raccontano la sera dal mozzarellaro di Sperlonga… Quanto alla continuazione, che dire… grazie per l’augurio, io ci provo, anche se ragioni strettamente anagrafiche fanno ritenere che sarà più una continuazione di ricordi che altro. Ma finché riesco a staccarmi da terra… @100 Cominetti. Altro che se mi ricordo la Troll! In effetti, le battute erano piuttosto relative al rischio (immaginato) per i cabasisi, volgarmente cojons. Vero è che non ci sono mai volato seriamente (però mi ci sono appeso sovente assai, senza apparenti danni alle parti di cui sopra). Forse il fatto di essere de Roma, quindi meno legati ad antiche e consolidate tradizioni alpinistiche locali (i sabaudi di qua, i “sestogradisti” di là) ci ha reso paradossalmente più aperti alle novità. Diciamo che, senza nessun merito particolare, siamo stati fortunati. Comunque, ne ho di amici e conoscenti dell’area torinese (non faccio nomi per non tirare in ballo persone che magari ne farebbero volentieri a meno), che al passo coi tempi ci sono stati eccome, e ci sono tuttora.

Verissimo Marcello, il problema è che i CAI ad ogni novità si chiude salvo poi arrivare in modo ridicolo dopo un bel po’… Vedi con scarponi/scarpette, secchiello/grigri ecc…

In caso di esecuzione scorretta del nodo (ad esempio l’otto mal ripassato che sotto tensione potrebbe sfilarsi) il contronodo impedisce alla corda di sfilarsi sotto tensione agendo all’incirca come un nodo inglese semplice  Sembrano cose superflue ma credo sia successo a tutti coloro che scalano spesso di fare inavvertitamente male il nodo; diciamo che ora con la prassi del “double check” succede sicuramente meno.

Sono anch’io convinto, perché lo vedo, che ci sia anche un Cai che fa e pure si adegua ai tempi. Ma vi ricordate quando uscì l’imbragatura Troll Whillans? Il Cai per almeno un decennio la vietava perché sosteneva che ti saresti spaccato in due in caso di caduta. Ma non vedevano che i più forti e non solo, arrampicatori del pianeta la usavano e non si rompevano? Quando il Cai arrivò con la sua “arrampicata libera” quest’ultimo era un termine già in disuso da almeno 10 anni.  Nello scialpinismo gli istruttori nazionali avevano, fino a pochi anni fa, un livello sciistico infimo che è pure pericoloso perché limita la velocità di spostamento allungando i tempi in cui ci si muove su terreno pericoloso, ovvero quasi sempre. Dicevano che a loro interessava la discesa perché erano più votati al lato alpinistico del raggiungere la cima. Volpe e uva!   Insomma, a parte le eccezioni che Battimelli ha sottolineato, il Cai alla Gargamella è un qualcosa che fa tenerezza e pure ridere. Appartenere ad un Club ridicolo potrà piacere a chi si accontenta o non se ne rende conto.  Infine, io frequento abbastanza Finale nelle mezze stagioni e tutti questi giovani caiani sabaudi non li ho mai visti. Eppure vedo, tra gli altri, appassionati del basso Piemonte, Valdostani, Lombardi, Emiliani e Toscani. Costoro, non tutti ovviamente, scalano in falesia, in montagna e fanno scialpinismo, freeride e cascate… Si vede che i capi caiani sabaudi vietano ai loro seguaci (istruttori compresi) di andare in falesia. E, mi spiace dirlo, ma oggi come un tempo, se si vuole andare in montagna limitando più che si può i rischi, bisogna andarci tutto l’anno per non ritrovarsi ogni volta in un ambiente alieno di cui si conoscono troppe poche caratteristiche.    Insomma

@84 o chi volesse sbilanciarsi Ma quale è il motivo del contronodo? Intendo un motivo concreto. Per pura curiosità

Ciao Gianni, probabilmente in un CAI con corsi da applauso così mi sarei trovato perfettamente a mio agio                        Buona continuazione  

Hai ragione Matteo, sono un po’ ingenuo ma per me la montagna e l’arrampicata sono e  restano un mondo ideale slegato dal mondo reale dove, anche con metodi ed idee diverse, si converge verso un obiettivo comune che è promuovere un’attività in cui crediamo perché i primi a beneficiarne siamo stati proprio noi.

Come giustamente rileva Cominetti, talvolta la cosa più saggia è tacere, ma dopo l’ultimo intervento di Crovella non ce la faccio a tenermi. Faccio quindi outing, e che dio mi salvi. Sono iscritto al CAI dal 1964, ho fatto il corso di roccia nel 1967 e dall’anno seguente sono nell’organico della scuola “Paolo Consiglio”, di cui sono attualmente direttore (e sì, dopo più di cinquant’anni sono riusciti ad incastrarmi). Mandavamo gli allievi da primi e abbiamo organizzato corsi che chiamavamo di “arrampicata sportiva” ben prima che la (allora) CNSA inventasse le diverse tipologie di istruttori titolati e la “arrampicata libera”. Nel 1984 (tanto per fissare i tempi) eravamo come scuola in valle dell’Orco (a fare un corso, intendo, non una vacanza tra istruttori). E abbiamo sempre allegramente mescolato soggiorni trad in Sea e puntate “sportive” nelle falesie all’ultimo grido. Aborriamo le divise (perché l’appartenenza è una cosa, l’appartenenza esibita un’altra), i giovani riempiono i nostri corsi tanto quanto a Torino, frequentiamo le palestre indoor e, udite udite, accettiamo perfino quelli con i tatuaggi (che poi a me non piacciono particolarmente, ma sono per l’appunto ca…i miei). E non inculchiamo “valori” dall’alto di una piramide gerarchica. Facciamo tanti bei corsi, e ne escono anche delle persone autonome e preparate. “Ho già detto mille volte: chi non ha la testa da CAI, chi non si sente genuinamente in armonia all’interno di questo CAI, non deve proprio stare dal CAI.” (cit. Crovella) Io invece, guarda un po’ (ma deve essere un vizio diffuso qui a Roma) sto benissimo al CAI, ma non mi sento affatto “genuinamente in armonia” con “questo CAI”. Non sarà (orrore!) che il CAI ha più di una testa? Forse il CAI (e le sue scuole), qualunque cosa se ne voglia pensare, sono grazie al cielo una cosa un po’ meno monolitica di quanto qualcuno tende a presentare (alcuni per aborrirla, altri per santificarla). Che Crovella continui pure a riproporre il “suo” modello di scuola, ma per favore sia chiaro, “not in my name”.

“E comunque se crediamo che andare in montagna sia un valore “più montagna e per tutti” ciascuno al proprio livello piuttosto che “meno montagna e per pochi” Giovanni, ma quando mai? Il vate del caianesimo, l’inossidabile e indefettibile l’ha scritto chiaro e tondo nell’intervento n°5: “Per me l’appartenenza al CAI è proprio un valore in sé, parallelo e indipendente dall’andare in montagna.”   Il CAI è un valore in se’ indipendente dall’andare in montagna…il suo CAI non c’entra nulla con la montagna. Punto. E’ inutile discutere o parlare e tantomeno ragionare su queste basi

E comunque se crediamo che andare in montagna sia un valore “più montagna e per tutti” ciascuno al proprio livello piuttosto che “meno montagna e per pochi”

Esatto Carlo, probabilmente non ero compatibile con il CAI mentre con l’USACLI e i suoi valori mi trovo benissimo. Sinceramente quello che in generale mi interessa veramente, dato che ritengo sia un valore di realizzazione personale, è che la montagna con le sue attività sia frequentata e che si possa scegliere con chi farlo. Per me con CAI, Guide Alpine o Usacli è assolutamente lo stesso; il bene comune e ciò a cui aspiriamo e in cui crediamo tutti è “andare in montagna” (facendo attività ovviamente non certo i merenderos) e trarne ciascuno al suo livello i benefici psicofisici che essa può dare.                             Libera scelta con chi farlo dal momento che in ogni ambito ci sono persone validissime (i Maestri di poche parole a cui accennava Marcello) che con la loro empatia sono il vero traino al di là di patacche o enti di appartenenza. La reale differenza è avere persone trainanti e capaci di dare un indirizzo ai vertici e non gente che cerca poltrone e che è distante dall’attività vera di cui spesso sa poco o nulla.

Crovella n. 91. Non so se lo dici a titolo personale o a nome di un’intera sezione del CAI, ma il concetto è chiaro. E va benissimo: ognuno per la propria strada, qual è il problema? Il problema è quando spingi per restringere la frequentazione delle montagne a pochi, obbligatoriamente dotati di patentino rilasciato previa ubbidiente partecipazione a piani formativi CAI o simil-CAI.

@89 Di fatti Massari, per quel che mi risulta (magari sbaglio), non fa neppure più parte del CAI nel complesso, figurati dei corsi. Ho già detto mille volte: chi non ha la testa da CAI, chi non si sente genuinamente in armonia all’interno di questo CAI, non deve proprio stare dal CAI. C’è tutto il mondo là fuori, nessuno vi di noi (noi caiani) pretende di mettervi museruole (nella realtà esterna), ma neppure vi corriamo dietro.

Quello volgarmente chiamato nodo a otto o nodo guide infilato, in realtà si chiama savoia infilato.   L’alpinismo ha poco più di 2 secoli mentre la marineria (che ha inventato praticamente tutti i nodi) esiste da qualche millennio. 

Riguardo alla “disciplina” dei corsi CAI ho personalmente fatto l’istruttore sia su ghiaccio che su roccia e non ho mai pensato che nessuno dovesse “ubbidirmi” ma ho sempre cercato di essere un esempio di esperienza per altri appassionati che erano pari a me ma soltanto meno esperti;

Mi rivedo pienamente in queste parole di Massari. Aggiungendo che ho cercato di trasmettere, oltre alle conoscenze techiche,  entusiasmo per l’avventura, aspetto per me fondamentale in arrampicata e alpinismo. Nodo ad 8 sempre. Ma se vogliamo essere piu caioti : nodo delle guide con frizione?

@83 Enri. Hai scritto “Non si dimentichi nemmeno lui che un’altra fetta di giovani e medio giovani che sono attratti dalla roccia ghiaccio e scalata in generale viaggia ad un’altra velocità’ e su canali diversi. ”   Ne sono perfettamente al corrente. Il punto è che ai caiani puri non interessano questi altri individui. Non ci interessa associare il 100% dei frequentatori della montagna. al limite quello è obiettivo delle cariche istituzionali (vedi appunto cosa scrive Montani). Io arrivo a dire che preferisco un CAI smagrito rispetto alle attuali dimensioni (target: 150.000 soci rispetto agli attuali 330.000), ma tutti genuinamente caiani. Se sono disposto a “perdere” soci rispetto agli attuali, figurati se corro dietro a quelle esterni. Sonon “forti”? Bene, io sono contento per loro, ma la cosa è irrilevante. L’obiettivo del CAI BNON è quello di essere la casa degli alpinisti forti, ma quello di essere la casa di chi ha, genuinamente, la mentalità caiana.   Alpinsiti&arrampicatori forti ma “non caiani” sarebbero solo fonte di fastidio per il CAI, produrrebbero un danno, non un valore aggiunto positivo.  Il CAI i suopi giovani (“caiani”) se li deve produrre dall’interno, prendendoli anche priuma dei 20 anni (con i Gruppi Giovanili) e inserendioli come allievi delle Scuole CAI a 20 anni. Come ho detto a iosa, a Torino facciamo così, per mia memoria personale almeno dagli anni ’60-70, ma è tradizione consolidata da sempre. I “forti” o non sono mai entrati nel CAI o sono state delle meteore che, in termini CAI, non hanno lasciato una vera traccia. C’è qualche eccezione ovviamente, ma sulla punta di due dita al massimo.

@82-85. Vedete è proprio lì il punto. se vi piace quel modo di ragionare, non avete la “testa” da CAI. E’ corretto che ne stiate fuori, ma non è il CAI che vi deve corere dietro, se non vi piace (tanto, a personalità con la vostra testa, per quel che ho imparato a conoscervi in modo “telematico”, il CAI non vi piacerà MAI, anche se dovesse snatiurarsi per corrervi dietro. Tanto vale lasciarvi perdere e proseguire per la nostra strada). Tanti auguri sereni anche a voi

@76 Montani: è proprio òì che io non riesco a seguire i ragionamenti, compeso il suo/tuo. qui a Torino siamo pieni di soci, di tutte le età, ma soprattutto siamo pieni di giovani e giovanissimi, che davvero a volte ne dobbiamo escludere alcuni dai programmi perché non riusciamo a stare dietro ai numeri. Questi ragazzi bussano alla porta dell’attuale CAI, non dobbiamo correr dietro a loro, e quando entrano sono felici, percorrrono la loro evoluzione del tutto caiana. I Direttori di oggi erano alleivi 10 o 15 anni fa. Gli allievi di oggi saranno i Direttori (caiani) fra 15 anni.   Se dovessimo propinare ai nostri attuali giovani modelli diversi e innovativi /arrampicata su cemento, gare di scialpinismo ecc) avremmo solo il rischio di acquisire quattro scapestrati in più, ma di perdere le centinaia (migliaia) di giovani soci che abbiamo. Qui a Torino è sicuramente così.   Allora: o Torino è una realtà completamente a parte (non solo per il risvolto CAI, ma in generale nella vita) oppure TRorino ha un modello CAI che, pur affondando nella tradizione caiana, riesca ad essere estremanebnte allettante acnghe agli occhi degli attuali 20enni, li coinvolge e li farà essere i direttori/dirigenti fra 15,20,30 anni.    Se vale la prima regola (Torino realtà a parte), allora non Torino non fa testo e u mueu raguioibnamentiu finiscono lì (qui si andrà avanti cos’, perché troppo radicata è la tradizione e i numneri sono molto favorevoli). Se invece Torino è un modello cui ispirarsi, può aver senso analizzarlo a fondo e standardizzare le variabili del suo successo per estenderle all’intero CAI nazionale.   Rinnovo gli auguri di Buone Feste

Posso non essere d’accordo sul 100% di quello che scrive Massari ma certamente ritengo queste come sante parole:   credo invece nella trasmissione delle conoscenze attraverso la semplice emulazione non gerarchica e di conseguenza così mi comporto.   Aggiungendo che: un maestro parla molto poco.

Il nodo a otto, con contronodo, è quello omologato per le gare IFSC.  Visto che recentemente il CAI è rientrato in UIAA spero che rientri in IFSC con i Francesi, Svizzeri, Austriaci etc etc e si attivi nel mondo delle gare; forse sarebbe un modo per tendere la mano ai giovani. Tutti gli altri Club sono attivi e organizzano gare. bulino infilato con contronodo. Quando voli si scioglie più facilmente

Io credo che ci siano due domande fondamentali: il Cai può’ insegnare cose utili a chi va in montagna? Penso di sì. Come? Questo è già’ più’ complicato. Il punto non è’ attrarre i giovani o larghe fette di mercato tanto per fare massa ma per trasmettere a costoro quello che di buono il Cai può’ trasmettere. Cosa può’ trasmettere? Rispetto per la montagna, una formazione sulle montagna più’  a 360 gradi, manovre ecc ecc.. Lo stesso fanno le Guide, gli istruttori riconosciuti ecc.. Tutto questo per me ha valore e fino a che il Cai sarà’ in grado di formare tutti coloro che vogliono andare in montagna farà’ una buona cosa. Nulla a che vedere con la visione, lasciatemi dire, più’ ideologica che ha Crovella. Ricordiamoci che oggi molti dei ragazzi che sono nostri figli o figli dei nostri soci di corda spesso scalano su difficoltà’ elevatissime e hanno un approccio alla montagna molto “rapido”. Il Cai può’ aggiungere quello che non si può’ imparare di corsa e cioè’ l’esperienza di istruttori più’ esperti. Ma la velocità’ con cui oggi i giovani scalano ( e’ proprio il caso di dirlo) gradi e vette e’ un dato di fatto: o stai alla stessa velocità’ ( e non mi sembra nella capacità’ del CAI) oppure prendi atto e ti proponi (anche) come associazione che offre, diciamo a buon mercato, una buona dose di esperienza, sapendo che, molto probabilmente, molti non li intercetterai e molti che parteciperanno ai corsi saranno meteore e se ne andranno per la loro strada. Se il Cai oggi mira a creare gruppi che esistano per 30 anni sbaglia, creerà’ gruppi di merenderos come qualcuno diceva prima. Del resto le Guide alpine offrono lo stesso prodotto ( la loro esperienza), certamente ad un livello mediamente molto superiore degli istruttori cai. Ma il prodotto è’ quello lì’. Per il Cai non si tratta ( non si tratterebbe, a mio avviso) di attrarre ed edulcorare giovani. Si tratta di mettere a disposizione di altri la buona esperienza di bravi istruttori a chi quell’esperienza non ha. Tutto qui. Quando leggo di Crovella che riceve applausi scroscianti sono contento per lui e per i suoi allievi. Non si dimentichi nemmeno lui che un’altra fetta di giovani e medio giovani che sono attratti dalla roccia ghiaccio e scalata in generale viaggia ad un’altra velocità’ e su canali diversi. Ps io uso sempre il nodo ad otto. Pero’ il bulino e’ più’ bello senza dubbio  

Penso che in fondo abbia pienamente ragione Crovella: chi ha la mentalità da CAI con le sue sicurezze di ente associativo unico ed assoluto rappresentante del variegato mondo Outdoor alpino ci si troverà benissimo e continuerà a restarci giovane o vecchio che sia. il mondo outdor come sapete però si è evoluto e ci sono ora altre realtà come Uisp, Usacli (di cui faccio felicemente parte in veste di tecnico) o FASI che propongono attività all’aperto con altre modalità e altre norme statutarie (perfettamente legali a quanto pare) ma come sempre saranno le varie persone che fungono da promotori delle varie associazioni dei vari enti di promozione sportiva che faranno la differenza (e probabilmente quello della nostra ASD è un caso fortunato visto che i corsi roccia sono numericamente simili a quelli della Gervasutti con un bacino di utenza sensibilmente inferiore); credo comunque che poter scegliere con chi fare cosa sia sempre un valore aggiunto. Riguardo alla “disciplina” dei corsi CAI ho personalmente fatto l’istruttore sia su ghiaccio che su roccia e non ho mai pensato che nessuno dovesse “ubbidirmi” ma ho sempre cercato di essere un esempio di esperienza per altri appassionati che erano pari a me ma soltanto meno esperti; forse a Torino è diverso….         Personalmente non credo ai corsi tradizionali ma credo invece nella trasmissione delle conoscenze attraverso la semplice emulazione non gerarchica e di conseguenza così mi comporto. ps. Nodo ad otto sempre

Molto interessante rileggere (vedi il link allegato) quanto il CAI nell’anno 2009 abbia rafforzato il suo impegno per coinvolgere le nuove generazioni. Ciò lo ritengo utile come base di partenza per future riflessioni. Negli anni a seguire, a mio avviso, vi è stato un rilassamento con minore attenzione a questo rafforzamento. A mio avviso è necessario stabilire una forte attenzione ad un rinnovato rafforzamento di fattivo impegno per il suddetto coinvolgimento. Di rilevante importanza è necessario rafforzare ed implementare la Comunicazione e le attività culturali rivolgendosi alle nuove generazioni soprattutto con nuovi contenuti a loro più congeniali. LO SCARPONE 001R (cai.it) Saluto Cordialmente il Presidente Generale del CAI Antonio Montani augurandogli un buon lavoro.

La mia sensazione è che le pratiche montanare si sono segmentate e differenziate anche per composizione demografica rispetto al trittico classico praticato della mia generazione roccia, ghiaccio, sci/alpinismo (Parravicini + Righini per intenderci). Forse anche per sesso. Vedo ad esempio nell’escursionismo una forte prevalenza femminile di età elevata o media Anche il cursus honorum classico (escursionismo, ferrate, arrampicate semplici, attraversamento ghiacciai, pareti nord…..) è profondamente mutato. Non ho però dati ma solo evidenze osservative. Se le cose stanno così (da verificare) il problema diventa quello del Portafoglio di attività che vuoi e puoi erogare non solo nelle grandi aree urbane. Perché i numeri si fanno sul territorio nazionale, se ti interessano anche i numeri. Solo agendo sulla gamma di offerta puoi cambiare i “clienti” (uso volutamente un linguaggio commerciale per capirci). Dipende poi dagli obiettivi, che non necessariamente si escludono. Si possono anche organizzare delle convivenze di offerte diverse, con qualche accortezza. Auguri a tutti. 

Esperimento non riuscito.  A Bill e Melinda vengono meglio! 

Mc nr. 67, non si offenda, sig. Mc.    Come prima cosa, io non ho motivo di pensare che lei sia un ignorante o uno sgrammaticato. Penso anzi che lei stia esprimendo bene le cose che pensa, ed è per questo che mi sono permesso di scrivere che, secondo me, sia stata una “vaccata”, da parte sua, affermare che “i giovani oggi non lottano per affermarsi”. Mi scuso se il termine che ho usato le sia parso offensivo: lo possiamo cambiare con “stupidaggine” o con quello che le piace di più, ma voglia prendere atto di due cose:   1) la frase cominciava con “penso che”: significa che questa è solo la mia opinione, non è un’offesa gratuita alla sua persona o al suo pensiero, è una cosa che penso e lei ha diritto di replica (nel merito). Lei dice di avere colto nel segno, ma penso si riferisca all’invito a “lasciare spazio ai giovani”, sul quale ovviamente mi trova d’accordo (e che non definirei mai una stupidaggine).   2) La domanda che lei pone – “Anarchia?” – contiene dal mio punto di vista due problemi: primo, che lei si è già dato la risposta (e la risposta è: sì); secondo, che lei pensa che anarchia sia fare quello che si vuole, fregarsene delle regole, non rendere conto a nessuno del proprio operato ecc. Io invece le dico che Anarchia è darsi spontaneamente regole di convivenza, senza bisogno di autorità e polizia e codici. Utopia? Forse. Ma se devo pensare a un ambiente dove veder crescere un ragazzo, penso all’utopia anarchica: penso a un luogo di aggregazione dove sia dato spazio al talento, alle sensibilità, alle capacità di leadership che vengono fuori spontaneamente. Ed è questo che chiamo “dare spazio ai giovani”.   Il presidente del CAI scrive qui che “vede il problema di mantenere i giovani nel corpo sociale [del CAI] così che possano portare la propria opinione e nuove idee”. Vede il problema ma cosa propone per risolverlo? Io un paio di cose le ho dette, una in risposta a lei, sig. Mc, l’altra in un mio commento precedente.    Ripeto, e chiudo: non faccia l’offeso, sig. Mc. Mi mandi pure a quel paese ma, se vuole, risponda nel merito di quello che scrivo, preferisco così.

Nessun progetto.  Pura curiosità. Collegare nodo e modo. 

Temo che solo i “caiani” utilizzino l’otto in falesia, gli altri vanno di bulino: giusto @Cla? Per quanto riguarda i dati la sede centrale farà in modo di procurarli e trametterli al pubblico dopo le festività @Carlo Il problema è che senza gli “scapestrati” tra 20 anni noi anziani saremo tutti morti, o quantomeno impossibilitati ad andare in montagna. Vogliamo far chiudere il CAI  perché riteniamo che la mentalità giovanile attuale sia troppo distante? Può essere una scelta ma deve venire dalla base. Pensi che negli anni ’80 i giovani avessero la stessa mentalità di Quintino Sella? Magari anche lui avrebbe considerato noi “scapestrati”  Forse il CAI si è adattato nei suoi 150 anni, molto lentamente, ai giovani. Oggi che le distanze tra generazioni sono sempre più accentuate è richiesto uno sforzo più “veloce” o forse più impegnativo. Pensiamoci durante le festività e valutiamo qualche piccolo sforzo che magari potrebbe scomodare o infastidire un poco gli anziani ma farebbe guadagnare tante idee nuove e carburante per le prossime generazioni. Buone feste a tutti voi e grazie

@66 Montani. Grazie per risposta. Io però intendevo una cosa un po’ diversa. Ah sia chiaro, se lei viene a parlare in qualche evento delle scuole subalpine per noi è un onore. Ma non intendevo quello. Intendevo fare un’analisi a tavolino molto approfondita, con appoggio manageriale, del modello “torinese” (inteso come nei miei commenti precedenti, non mi ripeto), in modo tale da capire le ragioni oggettive del suo apprezzamento, qui da noi, e vedere se tali ragioni di successo si possono standardizzare e replicare in serie in tutto il CAI nazionale (dove, a giudizio di altri commentatori, la situazione e’ critica o molto critica, con vecchi caiani matusalemmici incapaci di salire, che castrano le velleità dei giovani e li fanno scappare…). Io agirei anche su questo tema, combinandolo con l’analisi statistica suggerita da Pasini. Grazie e auguri di buone feste.

Ma c’era un progetto dietro al nodo favorito?

@71 evidentemente l’area torinese è un mondo a sé. Non solo i giovani arrivano senza alcuna iniziativa di marketing, ma essi restano in genere finché campano, anche parecchi e parecchi decenni. Evidentemente offriamo un qualcosa che piace al pubblico torinese. Sulla base di questa constatazione, io continuo a no  capire perché si debba rischiare di rovinare l’attuale CAI. Per correre dietro  a tre scapestrato, si rischia di perdere centinaia o migliaia di attuali soci. Per me non nd vale la pena.  

grazie Lorenzo, Enri, Marcello, Matteo per le vostre risposte. Mi dispiace che altri non abbiano voluto partecipare, come se avessi chiesto la consistenza del conto in banca. Che sarà mai, un nodo è solamente un nodo, ma tra nodo e modo ( di fare ) c’è ben poca differenza. Sono pessimista e vedo molti…OTTimisti!

MC. Il ragionamento su giovani e Cai richiede qualche informazione più precisa: quanto e’ squilibrata la composizione degli iscritti Cai rispetto alla composizione della popolazione italiana (insieme al Giappone siamo il paese più “vecchio” al mondo)? Questo squilibrio è omogeneo sul territorio nazionale o è più concentrato in alcune aree? Ci sono dati di confronto con i praticanti con le diverse attività (sono convinto che lo squilibrio sia più profondo per certe attività più che per altre) e via cantando. Il rischio è di fare discorsi generici che possono andar bene per discutere sui social (stile Assemblea condominiale) ma servono poco per orientare eventuali azioni concrete di cambiamento. 

E vero, non è affatto difficile affascinare i giovani, certo bisogna darsi da fare, adeguarsi alle novità, e non esagerare con l offerta, perché se alla prima uscita mettiamo in calendario il Bianco il Cervino e il Rosa ci sarà il tutto esaurito, e poi? Cosa potremo offrire di più? C e il vizio di bruciare le tappe, sarà il tempo a disposizione, i soldi i social ….. Va da sé che in due tre anni alcuni giovani si son macinato le avventure che a me hanno richiesto 40 anni. E poi se se ne vanno con le loro gambe …. Bene! Non era questo l obbiettivo del CAI?  Come quello di ogni genitore, insegnare ai propri giovani l autonomia! E se vale per la pratica sportiva dovrebbe valere anche per quella burocratica amministrativa.  Diamo più spazio alle idee giovani.

Montani. Immagino abbiate un database con le informazioni che ciascuno di noi compila all’atto dell’iscrizione. Potreste far lavorare qualche “smanettone” , come si dice in gergo, e pubblicare i dati di base: età, sesso, distribuzione territoriale, anzianità di iscrizione. Magari facendo qualche incrocio significativo. Una piccola ma accurata radiografia (illustrata) della base iscritti consentirebbe un confronto a partire da dati oggettivi. Potreste pubblicarla anche sulla nuova rivista  e sono sicuro che Gogna la rilancerebbe volentieri sul blog. Per la parte qualitativa la faccenda è più complessa. Sulle aspettative/orientamenti/percezionidegli iscritti potreste utilizzare un questionario on line, visto che pensate di inviarla non solo cartacea. Per i non iscritti è più complicato. Magari le scrivo privatamente. In ogni caso, a prescindere da quello che si pensa, il punto di partenza non può che essere una diagnosi della situazione “come è”, basata sui dati e anche su un po’ di intuizione clinico/diagnostica e di conoscenza diretta sul campo delle sezioni. Auguri di buon lavoro. 

58 Antonio Montani says: 23 Dicembre 2022 alle 12:37 Buongiorno,se posso permettermi il problema che io vedo non è tanto “far iscrivere i giovani ai corsi” ma mantenere quei giovani nel corpo sociale così che possano portare la propria opinione e nuove idee.

Ecco questo è già un buon punto di partenza!! Ai corsi della scuola dove io faccio l’istruttore, i giovani ci sono. Un problema poi è appunto questo.

Sig. Genoria. Io non sono una persona colta. Ho 60 anni, amo il CAI e i giovani, e il mio intervento, per quanto banale, ha colto nel segno, visto il proseguo degli interventi. In quanto all anarchia, l ho posta come domanda! Mi scuso se ho offeso qualcuno, ma non ho usato termini o epiteti diretti a chicchessia. E prima di inalberarsi a tal punto da dare delle “vaccate” alle parole altrui….. Calma. Io sarò pure un ignorante sgrammaticato ma non offendo gratuitamente il pensiero altrui. Come ha detto il dot. Montan non c e bisogno di aggredire.

@64 Roberto Al momento non sono online statistiche o dati.  Se mi dite cosa vorreste ve li procuro facendoli esportare dalla piattaforma.  Per quanto riguarda la “percezione” del brand è un’attività che non è mai stata fatta possiamo provare sicuramente. Se avete idee a riguardo la mia mail è presidente.generale@cai.it @63 Carlo A Torino vengo sempre volentieri: solitamente per parlare del Museo Montagna ma qualora le scuole volessero invitarmi posso anche partecipare ai corsi. Grazie 

@62 – poi veramente chiudo. la tua presupponenza e tracotanza è pari solo alla tua ignoranza (nel suo significato letterale). Ciascuno espone di sè quel che ritiene giusto esporre, ma è una scelta personale e legata a fasi della vita. Non credo nessuno si metta a fare l’esegeta su questo blog (fosse solo per evitare le tue straripanti esternazioni) in ogni caso, quanto ho scritto in passato e nel presente è frutto delle mie scelte, e oggi sono diverse,  poiché ciascuno ha il diritto sacrosanto di esporsi nei termini che crede, per ragioni che possono anche essere molto serie, senza che il primo sbruffoncello del web possa permettersi di andare in senso contrario.  MA evidentemente per te che sei un caiano doc goregn, che deve plasmare il mondo e gli allievi a propria immagine e somiglianza e pensa che il CAI sia solo quello che vede nei giardini della mole antonelliana,  mentre   invece  vede solo la carota che ha davanti al naso, è concetto un pò troppo elaborato. Stammi bene anche tu. 

Montani. Visto che ha fornito qualche numero vorrei chiedere al Presidente dove sono reperibili dati analitici sugli iscritti. Li ho cercati sul sito ma non sono riuscito a trovarli. Forse consentirebbero considerazioni più basate su dati che su evidenze aneddotiche. Avete per caso fatto anche qualche indagine qualitativa a campione sugli orientamenti degli iscritti e sulla percezione del “marchio”tra i non iscritti? Mi sembrerebbe necessario per impostare una strategia di rinnovamento. Grazie anticipatamente per la risposta.

@58 Montani   Buongiorno, grazie innanzi tutto per questa sua “visita”.   Oltre al tema da lei sollevato, l’età dei presidenti sezionali (ruoli però che, specie in realtà complesse come quelle metropolitane, richiedono “esperienza di vita”, per cui non vedo malissimo che non ci siano solo giovanissimi in tali compiti), approfitto di questo contatto per lasciarle un messaggio.   Sicuramente lei conosce la realtà dell’area torinese, ma mi piacerebbe che ne approfondisse ulteriormente la conoscenza, fin nei minimi dettagli. Il modello del CAI “sabalpino” (nel suo insieme) è oggettivamente di successo e di entusiasmo: in particolare è pieno di giovani e giovanissimi, che non solo arrivano, ma restano con grande loro gioia.   Se tale modello funziona così bene, per via genuina, perché non studiare come replicarlo nell’intera realtà del CAI nazionale? Ovviamente in molte altre situazioni cambiano i dati del problema (Sezioni piccole/piccolissime, realtà provinciali o addirittura situate in fondo alle valli, ecc ecc ecc), ma quello che qui funziona complessivamente bene, potrebbe aiutare a far funzionare l’intero CAI.   Grazie per l’attenzione. C.C.

@MG: di me scrivi quel che cappero ti pare, compreso il c/c bancario (?) così magari qualcuno ci versa sopra un obolo… che male non fa. Tutti sanno tutto di me, non aggiungeresti nulla a ciò che è noto perfino ai muri.   Su di te, MG o nome e cognome, chi segue il blog da alcuni anni sa molto, forse non il tuo c/c, ma molte cose le hai raccontate di tua iniziativa. Non tutti sono smemorati come quello di Collegno (Macario). Basta collegare le cose, utilizzando gli archivi (del Blog) di libero accesso a tutti.   Quanto al “ridicolo”, la valutazione è contraccambiata. Per quel che riguarda me, dal mondo CAI (in particolare torinese, ma non solo) non ricevo altro che manifestazioni di stima e gratitudine. O siamo tutti cretini, qui sotto la Mole,  i c’è qualcosa che non quadra in chi sputa fiele.   Per quanto riguarda la questione prettamente legale, non ho nessuna intenzione di mettere l’amico Gogna in mezzo a problemi antipatici, per cui eviterò, ma solo per questo (cioè per rispetto a Sandro, non per timore nei tuoi confronti). Tanto chi vuole può risalire nei commenti passati (anche di anni fa), che sono tutti di libero accesso, e fare benissimo i collegamenti.   Stame bin e rasserenati, che lo stressato dai l’idea di esser tu.

Caro Montani, hai chiesto il permesso a Gargamella per fare “restare” i giovani nel Cai? (Sezioni sabaude escluse ovviamente,  perché già traboccano). Qui si discute anche animatamente ma direi che non ci si azzuffi più di tanto. Solo una volta Gargamella ha minacciato manganellate (INDIMENTICABILE!) ma l’abbiamo compatto perché sappiamo che è una macchietta che non ha fatto la naja. Buona fortuna!    

Mi piace da morire, come da una supposizione relativa ad “alcuni”, e peraltro piuttosto  ingiustificata In alcuni casi, la vs avversione al CAI, al CAI caiano, dà l’impressione di essere la reazione a fenomeni di marginalizzaizone, se non addirittura di ostracismo si passi a una generalizzazione indebita (molti) e a un giudizio “morale” Molte vostre posizioni sono paragonabili a crisi isteriche di gelosia, tipiche delle mogli tradite. Non c’è nulla di razionale, solo schiuma di rabbia e fiotti di fiele perché i caiani, quei “cattivoni”, non vi hanno compreso e vi hanno addirittura schienato (!). per arrivare alla conclusione “didattica” e ammonitrice Con questa impostazione, “emotiva”  e per nulla razionale, non andrete da nessuna parte. Una cosa è certa: che il CAI non vi correrà dietro.   Fantastica rappresentazione di una lettura assolutamente avulsa dalla realtà, che rifugge il confronto con essa, e che a questa si guarda bene dal rispondere,  perché si troverebbe di fronte alle proprie limitazioni e contraddizioni.   Questa è una posizione nota per contraddistinguere una certa condizione psicologica. Ma lascio al lettore capire quale

Crovella, te lo spiego una volta per tutte e lo chiarisco anche a Gogna, che confido possa aiutarti a capire, visto che quale soggetto che gestisce il portale ha le stesse responsabilità dell’editore. Magari, non dovrebbe essere difficile da comprendere, qualcuno ricopre ruoli chepì i quali inquietante uesto momento preferisce mantenere terzietà rispetto a quanto scrive per mero diletto e un po a capocchia sul web? Se io decido di comparire con uno pseudonimo, è mio diritto assoluto non divulgare ai quattro venti altri dati. Le ragioni per cui abbia fatto questa scelta possono essere molteplici e soprattutto non ti riguardano, ma il fatto che tu continui a collegare nome e cognome ad interventi in rete contro la volontà di ha diritto di escluderlo , decidendo tu cosa gli altri conoscano,  può provocare all’interessato un danno del quale tu, che sei evidentemente un cialtrone perché nonostante ti sia stato chiesto in otto lingue continui a far come ti pare pensando di esser furbo e spiritoso , e chi ospita senza intervenire le tue condotte, può essere chiamato a rispondere  In ogni caso, se ancora mi verrà voglia di scrivere qui sopra, ogni volta che ti citerò sappi che inserirò il tuo indirizzo di casa, il codice fiscale, glie stremi bancari, età. tanto tutti sanno chi sei, no? Che a sessantuno anni si possa essere così ominidirezionali, logorroici e tautologici tanto da rendersi ridicoli a 380 gradi  è un problema tuo; che non si comprenda invece quando banalmente è il momento di piantarla  su aspetti che per qualcuno possono avere riflessi significativi davvero è profilo che mi sfugge se non ascrivendolo all’essere  talmente  puerili da non distinguere il cazzeggio da bar da aspetti più seri. evidentemente tu vivi solo in questa dimensione, altri no.   In ogni caso se ancora mi verrà voglia ti intervenire qui sopra, magari  quando ti citerò indicherò tutti i componenti del tuo stato di famiglia, il tuo indirizzo e il codice fiscale, nonché ogni altro profilo che mi parrà utile. Tanto tutti sanno chi sei, no?  

Buongiorno, se posso permettermi il problema che io vedo non è tanto “far iscrivere i giovani ai corsi” ma mantenere quei giovani nel corpo sociale così che possano portare la propria opinione e nuove idee. Inoltre credo sia indubbia la necessità di rinnovare la classe “dirigente” che al momento ha un’età media intorno ai 65 anni. Basta verificare, numeri alla mano, che i presidenti Under40 delle nostre 517 sezioni sono solo 26. Vi prego di non azzuffarvi ? Grazie

Cominetti. Un buon consiglio. Grazie. Non la conoscevo. Nei lunghi anni di non iscrizione al Cai ho sempre pagato la Rega viste le assidue frequentazioni svizzere. Questa mi sembra meglio. Ci studierò (Dichiaro che non ho interessi in merito ?). Sul resto preferisco astenermi: ogni tanto il blog mi sembra un’Assemblea condominiale (vedi tragico episodio di Roma). Per fortuna è on line: altrimenti ci sarebbe stato il rischio di qualche picozzata. 

“Molte vostre posizioni sono paragonabili a crisi isteriche di gelosia, tipiche delle mogli tradite. Non c’è nulla di razionale, solo schiuma di rabbia e fiotti di fiele […]”  

Leggere il commento 54 penso sia inutile. CONSIGLIO A TUTTI L’ASSICURAZIONE  DOLOMITI EMERGENCY VALIDA IN TUTTA EUROPA DAL COSTO DI EURI 22

nel marasma generale, riasssumop i punti salienti:   1) Il CAI così com’è, ovvero il CAI caiano, piace ai caiani (fra cui mi inbserisco anche io).   2) Guardandomi intorno, nella realtà dell’area torinese, il CAI, seppur caiano, è tutt’0altroi che in crisi. Soci delle sole Sezioni cittadine: fra 6 e 7.000. Sei Scuole, di cui due blasonatissime (Gervasutti e SUCAI), le altre non sono da meno, solo un po’ più piccole e/o meno storiche di età. Scuole nell’hinterland (principalmente scialpinismo): non riesco a contarle tante sono, a naso una decina, forse 12-15. A ciò va aggiunta una miriade di corsi (arrampicata, alpinismo, sci fondo, sci pista…), una vagonata di uscite sociali di ogni livello e difficoltà. Tutti questi programmia, TUTTI, in genere sold out. Non riusciamo a soddisfare le richieste, ma più di così non è fisicamente possibile fare. In più vanno aggiuntri tutti gli impegni collaterali (il Coro, anzi i Cori che sono due e di livello primario – Edelweiss e Coro Uget -, commissione rifugi, serate culurali varie, ristorante ai Cappuccini, Museo Montagna  eBiblioteca Nazionale – che non fanno parte amministrativamentre della Sezione CAI Torino, ma che sono iprofondamente legate e in ogni caso sono fisicamente “qui!, basta andarci, ecc ecc ecc). Aggiungo in ultimo, ma è la cosa più importante per il futuro, i Gruppi Giovanili, folti, pimpanti e ben impostati per garantirci il futuro: abbiamo i vivai in casa. Ma dov’è ‘sta crisi??? Il CAI in area torinese è talmente inserito nelle nostre vite quotidiane che non morirà mai. Oltretutto i padri iscrivono i figli quando questi sono in tenera età, e a loro volto i figli iscrivono i nipoti ecc ecc ecc.   3) Può darsi che la realtà del CAI torinese sia particolarmente positiva per motivi suoi e quindi non faccia testo a livello nazionale. Tuttavia, per mia esperienza personale, quando io ho avuto ed ho contatti con altri individui “non torinesi” (per esempio ai corsi di aggiornamento per istruttori titolati, ai convegni ecc), ho normalmente trovato persone molto competenti, molto aggiornate, molto “sul pezzo”, tendenzialmente di livello tecnico medio-alto se non alto e altissimo. Quindi anche a livello nazionale io dico: ma dov’è ‘sta crisi del CAI??? Io non la vedo affatto. 4) ricambio generazionale: a parte la realtà torinese (che ho già descritto, dove la tessera CAI viene regalata ai figli in culla o poco dopo),  anche a livello nazionale io non mi sono mai imbattuto in situazioni così critiche come le dipingete voi. Ho tenuto diverse conferenze, anche in Sezioni piccoline di provincia o addirittura di montagna, e ho sempre verificato di persona un vivace e dinamico gruppetto di giovani. Spesso la Sezione CAI mi ha dato impressione di ricoprire quel ruolo di aggregazione giovanile che, in altri tempi, spettava all’oratorio parrocchiale o al Bar Sport sulla piazza principale. quindi anche qui: ma dov’è tutta ‘sta crisi???   5) E’ ben vero che esiste ANCHE un parte ancor più caiana nel CAI nazionale, quella dei merenders e dei magna-polenta. E’ vero )e su questo concordo con voi) che non è un elemento positivo per il CAI nel suo complesso che tale componente sia così estesa e soprattutto cresca nel tempo. Cresce per naturale conseguenza dell’invecchiamento di molti soci, che forse non erano degli speedy-gonzales fin da ragazzini. Ma voi credete che questa pancia del CAI, composta di merenders, si estinguerà? Ma manco per sogno. Il CAI nazionale non morirà proprio perché ci sono così tanti merenders. I merenderos sono attaccati al CAI e vi restano finché sono in vita. Viceversa l’ottavogradista plasticoso o il garista di skialp, quando gli è passata la “cissa”, si dedica a sport completamente diversi, abbandona la montagna e quindi abbandona anche il CAI. Investire su questi ultimi soggetti è una politica quanto meno rischiosa, proprio nell’ottica della saldezza del Sodalizio.   6) Morale: ai caiani piace il CAI proprio perché esso è caiano. Al contrario ai “non caiani” il CAI caiano non piace e non piacerà mai. Ma non è un problema né un difdetto del CAI. Il CAI è così: se vi piace, seite i benvenuti, ma non dovete pretenbdere che si snaturi. Se il CAI non vi piace, andate per la vostra strada (il mondo è grande) e lasciate tranquillo il CAI che, puir con milioni di difetti, compessivamentre gode di buona salute così come è.   7) In alcuni casi, la vs avversione al CAI, al CAI caiano, dà l’impressione di essere la reazione a fenomeni di marginalizzaizone, se non addirittura di ostracismo nei vs confronti, o quanto meno di vs. delusione perché il CAI non “vuole” diventare quello che piace a voi. Molte vostre posizioni sono paragonabili a crisi isteriche di gelosia, tipiche delle mogli tradite. Non c’è nulla di razionale, solo schiuma di rabbia e fiotti di fiele perché i caiani, quei “cattivoni”, non vi hanno compreso e vi hanno addirittura schienato (!). Con questa impostazione, “emotiva”  e per nulla razionale, non andrete da nessuna parte. Una cosa è certa: che il CAI non vi correrà dietro.  

A proposito della motivazione “assicurativa” di cui ha parlato qualcuno. Mi sono iscritto al Cai negli anni 70 perché era obbligatorio per frequentare la scuola Parravacini. Poi non ho più rinnovato fino a tre anni fa, quando ho cominciato a fare manutenzione dei sentieri con attrezzature impegnative. Fondamentalmente per ragioni assicurative. Scoperta recente: la polizza infortuni copre solo le attività sociali. L’estensione alle attività non sociali programmate costa 250 €. La copertura spese infortunio ha un massimale di 2000 euro: non ci paghi neppure i costi di una distorsione. Conviene farsi un’assicurazione privata, si possono negoziare costi minori e coperture maggiori. Può essere utile per il soccorso fuori d’Italia, (in Italia non si paga comunque tranne i casi di chiamata impropria e non necessaria) ad esempio in Svizzera, dove ci sono accordi di reciprocità, ma con 25 franchi pagati alla Rega sei equiparato ad un cittadino svizzero. L’argomentazione di vendita “assicurativa” non ha dunque un gran valore. 

@38 dai, lo sappiamo tutti che ti chiami così (nome e cognome). Per anni hai scritto firmandoti con nome e cognome per esteso, poi, seppur passato – abbastanza di recente –  al nick MG (iniziali di nome e cognome), hai spesso fatto espliciti riferimenti a cose da te dette in precedenti tuoi interventi firmati con nome e cognome e/o a tuoi risvolti di vita che tu stesso hai raccontano in tuoi precedenti interventi firmati con nome e cognome… Quindi MG sei “tu”, lo sappiamo tutti. Giudico estremamente immaturo volerti nascondere, arrivando addirittura a minacciare ipotetiche azioni contro di me e contro il Blog (ma che c’entra il “povero” Gogna?).   Ma il punto chiave è: che timori hai? Io non hi timori di firmare esplicitamente Carlo Crovella quando scrivo. Perché tu deve metterti dietro un paravento? Oltretutto ti fossi palesato, dalla notte dei tempi, solo come MG fin dall’inizio, avrebbe un fondamento guirudico questa tuo attuale pretesa ( in quanto potresti sostenere che abbiamo spiato dentro al data base del Blog e siamo risaliti dal nick MG al nome e cognome…). Invece per lunghissimo tempo hai firmato con nome e cognome e ora vuoi “nasconderti” dietro un nick, quando sappiamo tutti chi sei. Roba a asilo infantile!

Commento del sig. “Mc”, nr. 40. Sui giovani, anche se “sarebbe giusto lasciar loro più spazio”, ha da dire questo:  

i giovani oggi non lottano più per affermarsi, come ha fatto la nostra generazione, loro “fanno” e se ne fregano. Il loro aggregazionismo  sono i social. Li non devi rispondere del tuo operato a nessuno.Anarchia? Bo! Fate un po’ voi

  Gulp! Pane per i miei denti.    Caro sig. “Mc”, la prima cosa che mi viene da dirti è questa: non è vero che sui social “non devi rispondere a nessuno del tuo operato”, tutt’altro. Una classica dinamica da social è: fare una cosa /esprimere un’opinione > promuovere quello che si è fatto o detto > misurarne il gradimento tra gli altri. Sull’esito del terzo passaggio (i “likes”) c’è gente che non ci dorme la notte.    Detto questo, penso che le tue due supposizioni – che “i giovani oggi non lottano per affermarsi” e che “il loro aggregazionismo sono i social” – siano vere e proprie vaccate senza senso. Semplicemente, non è vero; o, per meglio dire, potrebbe anche essere, in qualche caso, ma non è la regola.   E infine, sull’Anarchia (con la maiuscola). Anarchia è credere in questa cosa qui (David Graeber, http://www.arivista.org/?nr=392&pag=8.htm):  

gli esseri umani, in circostanze ordinarie, sono spontaneamente ragionevoli e dotati di senso della giustizia, e sono in grado di organizzare loro stessi e le loro comunità senza bisogno che venga detto loro come fare

  Prosegue lo stesso (mai abbastanza compianto) David Graeber:  

Fai parte di un club, di una società sportiva o di un’altra organizzazione volontaria in cui le decisioni non sono imposte da un leader ma prese sulla base del consenso generale?Se hai risposto “sì”, allora fai parte di un’organizzazione che funziona sulla base di principi anarchici!

  Si è spesso fatto notare come le ultime generazioni, fuori dalle loro famiglie, abbiano vissuto più tempo in presenza di educatori adulti (insegnanti, allenatori, capi scout) che dentro a gruppi formati esclusivamente da loro coetanei. Sarebbe un discorso lungo ma la faccio breve: se da un lato è il risultato di un’esigenza con molte motivazioni, anche giuste, che i nostri ragazzi passino il tempo libero all’interno di associazioni o circoli di varia natura (meglio che sui social, meglio che certe “cattive compagnie” ecc.), una cosa che però può fare un genitore è evitare con cura, per i propri figli, le sedicenti “scuole di vita”. Quindi tassativamente NO SCOUT. Ma anche no CAI, mi viene a questo punto da dire, se il CAI è un posto, come scrive Crovella, dove “l’allievo deve ubbidire”, se il CAI, come mi par di capire, è una specie di mastodonte iper-strutturato dove tutti, si badi bene su base volontaria, sono presidenti e micro-presidenti di ‘sto cavolo e fanno a gara a chi è più presidente e fanno i discorsi e fanno la morale e hanno rotto le palle.   E prossima volta, caro il mio “Mc”, sciacquarsi la bocca, prima di pronunciare la parola che comincia per A.   “Anarchico sarà lei!” (semi-cit.)

Crovella incompreso. Scrive grandi verità che non vengono capite (in realtà sospetto che nemmeno lui le capisca, ma tant’è) “Per me l’appartenenza al CAI è proprio un valore in sé, parallelo e indipendente dall’andare in montagna.” Questa frase da sola spiega perfettamente perché il CAI perché non possa essere realmente ambientalista e a difesa della montagna o perché non attragga i giovani (ma in realtà nemmeno i vecchi) e perché ci si iscriva al massimo per l’assicurazione.   E penso che in fondo sia anche un bene che un CAI così sia in crisi. Perché l’appartenenza in se’ è un valore solo per i poveretti, gli insicuri, quelli che hanno bisogno di essere guidati e diretti. Schiavi e sudditi, per scelta o abitudine; incapaci di essere attori protagonisti della propria vita. Un mondo, una società in cui il numero di queste persone declini e sparisca è certamente un mondo migliore.   P.S.: nodo a otto, anche per collegare le corde in doppia Un mondo senza 

Da giovanissimo scalatore -self made- il CAI locale mi chiese di essere un suo  istruttore al corso roccia. Accettai ed esordii alla lezione pratica con brevi parole sul trovare ognuno il proprio feeling fisico e psichico con la pietra come unica e sola condizione per imparare a scalare. Li portai a fare boulders. Non solo i colleghi istruttori,scandalizzati,  ma gli stessi allievi parvero contrari, non volevano imparare a scalare volevano essere istruiti sulle verità tecniche scritte nei manuali Li abbandonai alla terza quarta uscita e mi dispiacque per quei due tre che avevano capito. Cominetti vede benissimo e scrive meglio nel @44_45 il substrato psico filosofico che sottende alla questione. Il CAI è morto (tranne quello sabaudo ovvio) Viva il CAI.

Il nostro Marcello racconta di essere rude guida alpina, ma prima di ogni altra cosa è saggio filosofo. Anziché dormire il meritato sonno del giusto (ore 3.09 e 4.10), medita sul pellegrinaggio spirituale che ciascun essere umano dovrebbe intraprendere nel corso della vita.   Bravo!  

Avercene. [solo su Darwin, ho altre idee] Bello.

Dalla prefazione di: Se trovi il Buddha per strada, uccidilo.   Da sempre nel mondo gli uomini hanno intrapreso pellegrinaggi, viaggi spirituali, ricerche personali. Nella loro ricerca della conoscenza, gli uomini hanno però confuso l’apprendimento con la conoscenza stessa e spesso hanno cercato aiuti, guaritori e guide, insegnanti spirituali dei quali poter diventare discepoli. L’uomo di oggi, il pellegrino contemporaneo, desidera essere discepolo dello psichiatra. Se cercherà la guida di questo guru dei nostri giorni, l’uomo si troverà a intraprendere il proprio moderno pellegrinaggio spirituale. Nel suo viaggio il pellegrino, il viandante, il discepolo, impara soltanto che nessuno può insegnargli nulla. Appena sa rinunciare al suo ruolo di discepolo, impara che ha sempre saputo come vivere, che questa conoscenza ha sempre fatto parte della sua storia. Il segreto è che non ci sono segreti. Il monito del maestro zen “Se incontri il Buddha per la strada uccidilo!” insegna a non cercare la realtà in ciò che è esterno a noi. Uccidere il Buddha quando lo si incontra significa distruggere la speranza che qualcuno all’infuori di noi possa essere il nostro padrone. Nessun uomo è più grande di un altro. Dobbiamo imparare che per ognuno di noi la vita può diventare di per sé un pellegrinaggio spirituale, una ricerca, un esilio senza fine. La nostra unica consolazione in questo viaggio è riconoscere in ogni uomo il nostro compagno di strada.

Regattin, hai sfondato una porta aperta con il tuo provare i brividi nel leggere un’impostazione che io ho detto che richiamava al nazismo e sono stato messo al muro. Quando mio padre raccontava che da piccolo era costretto a “giocare” a fare il soldato nei “figli della lupa”, contro la sua volontà, da una signora che fungeva da capo caseggiato, io, nonostante la noia ribelle dell’averlo ascoltato tante volte, sono cresciuto nell’avversione a quel tipo di impostazione sociale. Quei caioti che escono dai corsi sabaudi di cui Crovella si vanta, (e molti istruttori, anche se non tutti) spesso me li ritrovo come clienti perché faccio la guida e noto in loro un marchio seriale che, seppure in molti casi è comodo che lo abbiano, mi fa pensare alla loro riluttanza di uscire da schemi che qualcuno ha preparato per loro.  Sarà che insofferenza e inquietudine sono spesso la molla che porta certi individui ad evolversi spinti proprio da quella necessità di uscire da schemi precostituiti, ma io, sinceramente, quando incappo in queste persone omologate vengo colto da enorme tristezza. Non nego la comodità nel trovarli facili da gestire, ma allo stesso tempo sento che quella facilità di gestione è una tomba della creatività e quindi dell’evoluzione.  Tutte cose che troviamo anche nelle tesi di Darwin,  ma che se tocchiamo con mano, almeno a me, fanno venire quei brividi di cui all’inizio del commento, che scuotono nel profondo chi pensa e non si piega sempre annuendo davanti a quello che gli viene proposto da ragionamenti altrui. E qui il discorso sarebbe lungo e variegato, ma la recente situazione Covid ha fatto risaltare le caratteristiche di chi ha spontaneità a uniformarsi credendo a un illusorio  bene comune, che in realtà è una strada che richiede poca o nulla fatica per essere percorsa, e chi invece prova piacere profondo a percorrere strade impervie, ripide e talvolta pericolose, per sentire di avere fatto la cosa giusta.  Ferrate di gruppo e Sci Club Cai, ho sempre detto che starebbero bene nel cesso. 

“coinvolgiamo i ragazzi fin dall’esta delle scuole medie. I Gruppi Giovanili li impostano, questi ragazzini (m/f) e li preparano a puntino: a 18 anni sono pronti per iscriversi alle Scuole o ai vari corsi o alle altre attività sociali nelle diverse discipline delle montagna” da brividi! Altra mostruosità: i corsi di “via ferrata” sono considerati una specializzazione ai corsi di escursionismo! Ma voi caiani titolati vi rendete conto della contraddizione insita nell’istituzione stessa di questi corsi? Il CAI dovrebbe insegnare a sapersi muovere autonomamente su qualsiasi terreno montano, non a seguire una merda di cordone d’acciaio alternata a scalette, piuttosto dovrebbe incentivare la loro dismissione. Per fare una ferrata basta indossare un’imbragatura, leggere le istruzioni su facebook e seguire altre 200 persone in coda, farsi i selfie sul ponte tibetano e postare il tutto su instagram. Cosa c’azzecchi il CAI con questo andazzo è incomprensibile.

Il problema del CAI sono i vecchi tromboni che vogliono educare i giovani, che guarda caso, spariscono. Solo la parola “Accademico” emana un sentore di muffa e polverosita, ti mette il piombo nello zaino.  Che intelligenza comunicativa si nasconde dietro l’idea di chiamare una cosa “bidecalogo”, quando nel nostro mondo suoerlaico già decalogo ti proietta nel mondo angosciante dei comandamenti religiosi? E poi ti stupisci che nessuno lo legge.  

Sig. Preghiera, caiota, per me significa caiano. L’avevo sentito per la prima volta una trentina d’anni fa dall’allora presidente di una sezione di una delle più grandi città italiane. Saluti.

Sono socio da 44 anni, e continuerò ad esserlo! Ma come tutte le associazioni anche il CAI non si e svecchiato. La vecchia guardia continua a mantenere saldamente le redini in mano.  Se non lasciamo il posto ai giovani, e questo è un problema trasversale di tutta la società che invecchia sempre più e si prepara il terreno ad ok , saremo destinati a scomparire per mancanza di proseliti! Possiamo dare dei buoni consigli, ma gli “ormoni” , quelli che innestano le rivoluzioni….. Li hanno i giovani, e sarebbe giusto lasciar loro più spazio. Solo che i giovani oggi non lottano più per affermarsi, come ha fatto la nostra generazione, loro “fanno” e se ne fregano. Il loro aggregazionismo  sono i social. Li non devi rispondere del tuo operato a nessuno. Anarchia? Bo! Fate un po’ voi.  

Salve Marcello Cominetti. Le chiedo se può spiegarmi cosa significa “caiota” come lei scrive. È una parola che comprende CAI . però non capisco il ota. Saluti. Giovanni Preghiera     

Dove hai letto Ginesi nei commenti? Se hai voglia di creare problemi a te stesso e al blog continua su questa via. È la quarta o quinta volta che te lo chiedo garbatamente e continui a fregartene quanto al resto la mia era una richiesta di moratoria non di confronto (attività che ti è ignota)

@31 Ginesi, io riporto la mia esperienza personale, ovviamente basata sulla realtà CAI che fequento. Ma a Torino ci sono 3500 soci CAi To e oltre 3000 dell’UGET e io li vedo tutti felici di frequentare “questo” CAI (il  CAI caiano). Per cui sono stupido dalla vostra delusione.   L’altra settimana, alla serata di inaugurale della Scuola SUCAI di scialpinismo, ho tenuto un intevento di 10 minuti sull’importanza della crescita culturale (cultura di montagna) in affiancamento all’apprendimento tecnico. C’erano 90 allievi, tutti “nuovi”. Alcuni mai fatto scialpinismo prima. Da parte della Scuola mai fatto attività di marketing ne’ promozione. Quindi i nuovi giovani arrivano di loro iniziativa. Parlando per quei 10 minuti, li ho velocemente guardati in viso. Ho registrato un riabbasamento dell’età media rispetto a una decina di anni fa. A stima visiva, la stragrande maggioranza era sui 20-25. Sicuramente under 30. Molte le ragazze.   Nell’altra Scuola cittadina di scialpinismo le iscrizioni online si sono esaurite in 2 minuti. E c’erano 50 posti  a disposizione, non 5 posti.   Per quel che mi risulta il corso autunnale (arrampicata) della Gervasutti ha avuto 46 iscritti, per la prima volta più ragazze che maschi.   Perché racconto tutto questo? Perché sulla base della nostra esperienza diretta,  e non solo di questa stagione, io TUTTI ‘STI PROBLEMI DEL CAI NON LI VEDO PROPRIO.   Qui a Torino i numeri totali dei soci sono soddisfacenti,  i giovani arrivano di loro iniziativa e ne abbiamo da vendere, il livello tecnico degli istruttori e’ elevato se non addirittura molto elevato. Anche quei soci che non praticano assiduamente la montagna, sono felicemente coinvolti in mille ruolo nel CAI, rivelandosi importantisdimi: si occupano di rifugi, di serate, di biblioteca, di segreteria, di aministrazione… Insomma, io vi sfido a trovare a Torino un socio CAI, praticante, che si dica deluso di stare in questo CAI. Certo che ci sono dei delusi, ma chi non si trova bene, semplicemente se ne va. Bon. Non pretende che sia il CAI a cambiare per andare incontro a lui.   Nuove tendenze, plastica, gare di scialp o di corsa, alpinisti di punta ecc ecc? Ma chi se ne frega!!! Il  CAI non è la squadra corse, né l’Olimpo dei top. Il  CAI, il CAI caiano intendo, è una produzione di serie e tutte quelle robe lì non c’azzeccano per nulla. Soprattutto non ha senso snaturare il CAI per correre dietro ai non caiani.   Credo di rappresentare qui efficacemente la posizione quell’insieme di soci CAI che, almeno qui da noi nel torinese, e’ felicissimo di “questo” CAI (il CAI caiano) e non e interessato a cambiarlo. Per noi caiani cambiare il  CAI, che qui da noi funziona benissimo, comporta il rischio che il “nuovo” CAI non ci piaccia più. Perché dovremmo rischiate di perdere tua cosa che ci piace e che per noi è importante??? Contesto il principio che tocchi a noi caiani correre dietro agli altri. Trovo più sensato  invece  che chi e’ un “non caiano” sia lui ad allontanarsi dal CAI e persegua una sua strada indipendente dal  CAI. Questa mia conclusione e’ sulla base di una realta’ CAI molto particolare, quella torinese. Ma qui a Torino il CAI è talmente radicato nella vita degli individui che non sparirà mai.

Asola di bloccaggio inversa senza contro-asola. A la Preuss.

Parlare di CAI richiede di specificare di quale attività’. Il cai che propone sci alpinismo non ha nulla a che fare con il CAI che propone i corsi di roccia per esempio. Nella mia breve e ormai lontana esperienza come istruttore alla scuola Figari di Genova non ho mai avuto nulla a che fare con chi si dedicava alle Gite, Scialpinismo… Questo per dire che parlare di CAI come se fosse una cosa unica non ha molto senso. Ai tempi in cui feci per un paio d’anni l’istruttore, c’erano istruttori molto validi e allievi ingaggiati. Il resto del cai per me era un mondo sconosciuto. Oggi non so bene il cai cosa voglia essere ed a chi si rivolga. Certo tutte queste discussioni più somiglianti ai famosi congressi di qualche partito politico rischiano di relegarlo dove forse non merita di essere. 

@24 io uso il nodo delle scarpe, ma doppio.

@30 Sinceramente, sei tu che non capisci quello che scrivo, e non è la prima volta. Qui il concetto (“ambientismo”) è espresso in modo preciso. La spiegazione del 28 e’ a prova di bambino dell’asilo.

Crovella ma una moratoria di sei ore sulla logorrea non è possibile? Tipo contare sino a 400 prima di riscrivere per la treventomiloonesima volta lo stesso concetto? peraltro sempre autoriferito. Riesci a rendere indigeribile qualunque confronto. ti stanno dicendo in molti (e la mia esperienza trentennale anche da dirigente è nello stesso senso) che una associazione che non recepisca i venti nuovi del mondo della montagna, dell’arrampicata e dell’alpinismo, che non riconosca le eccellenze, che abbia mediamente un corpo istruttori mediocre e che teme di esser superato dall’allievo, che veicola modalità didattiche, che tu stesso spacci come eccelse, e che sono ridicole e non funzionavano manco a fossano al 22 btg primaro, che non si schiera nettamente e attivamente a favore dell’ambiente montano e la cui attività piu rappresentativa sono le polentate sociali è una associazione obsoleta e che campa solo ai suoi legami istituzionali. che fatica, ma davvero. 

Crovella, perdio!   Ma tu leggi ciò che scrivi? E lo capisci? … … …  Ti vedo bene come democristiano.

#21 non So a quale sezione tu appartenga. Mi spiace che tu abbia una visione così addolorata del CAI. Io ho un’immagine di un’associazione pimpante, dinamica, piena di giovani… probabilmente Torino e un’isola felice, un caso a parte. Ma poi non è solo Torino città, come ho spiegato stamattina, è un’area molto ampia con una quindicina di Scuole e un’infinità di Sezioni.   ALTRA COSA: circa la Righini, ho solo riportato un paragrafo del suo statuto per significare che la mentalità caiana non è esclusiva torinese. Le mie conoscenze umane un area milanese non sono così negative, ovviamente non conosco le cose dall’interno. Ciao a tutti.

@19 Devi seguire bene i dialoghi fra i tanti contributori sennò ti perdi. Claudio, mi pare nel 15, pur ringraziandomi pet la disponibilita’ al dialogo, si dispiace che io non veda nella difesa dell’ambiente un elemento di aggregazione. Allora io gli ho risposto che, pur essendo la difesa dell’ambiente montano presente nello Statuto del CAI, non è questo solo elemento che possa giustificare l’iscrizione al CAI. Uno deve condividere gli altri e prioritari valori del CAI e poi ci aggiungerà anche quello, altrimenti si sentirà un po’ spaesato nel CAI. Infatti il CAI non è una associazione esclusivamente ambientalista. Ce ne sono mille altre, tra cui MW, molto più più focalizzate sul tema. Di conseguenza, se un individuo e’ interessato solo al tema ambientalista, sbaglia a iscriversi al CAI. Deve iscriversi a MW ecc. Pero” che fatica! Basta leggere cin più attenzione…  

Vegetti: “Io ho visto cose al CAI di Milano che voi umani non potreste immaginare…”. 

Crovella, lascia stare la Sezione di Milano, che secondo me conosci solo per sentito dire. Sono stato iscritto quasi 40 anni e ci ho lavorato per 9. Credimi, stare lì tutti i giorni ti fa vedere cose che non brillano come pensi tu, neppure la Righini… Finisco qui per non rivangare un passato recente davvero vomitevole…

Bulino doppio (solo doppio ricciolo iniziale)

Sondaggio natalizio tra i commentatori, per chi mi vuole rispondere, : Quando legate la corda all’imbrago, chi di voi fa l’8 e chi il bulino ripassato? Grazie per le vostre risposte.  Il risultato potrebbe essere interessante. 

Buongiorno Allegra Banda! Vedo che anche oggi ci siete tutti. Parto da alcune considerazioni: –        – Intanto “Lo Zaino”. A me piace. Non lo ricevo, ogni tanto lo leggo on-line. Lo trovo una rivista interessante per gli articoli, come sono scritti, gli argomenti, la cura grafica e il taglio. Ammetto di essermi stupito che il CAI facesse una rivista così bella, accattivante e avvincente. Ammetto anche, mio malgrado, di fare tanta, tanta fatica a leggere montagne 360. Di solito arriva, lo scarto (dall’incarto) e poco dopo lo scarto relegandolo alla seconda libreria di casa, quella sopra il cesto della biancheria. Di solito rimane lì un po’ e poi se ne va, al riciclo. Recentemente ho ricomprato i numeri di “In Movimento” disponibili in pdf, avevo già quelli cartacei, li avevo letti e non ho mai provato ad avvicinarli alla seconda libreria. Ora li leggerò dal tablet. Sono abbonato a Pareti. Recentemente con molta fatica ho rinnovato l’abbonamento. L’ultimo editoriale pone il lettore davanti a degli spunti importanti. Mi piacerebbe se un giorno fosse postato qui come post quotidiano da commentare.   –        – L’articolo: l’ho trovato propositivo. Scritto anche con dolore e passione. Conosco quel dolore. Conosco le dinamiche di una scuola CAI, facendone parte, un po’ meno quelle di sezione, frequentando poco. Fin che ne avrò la forza e non parlo di fisico, ho da poco superato i quaranta, continuerò a gravitare in quell’ambito ma ammetto le difficoltà. L’associazionismo ha dinamiche tutte sue, forse se ne trova simili nei sindacati o nella politica. Una valvola di sfogo a volte? Per coprire cosa? L’aspetto interessante è come venga posta l’attenzione su un fatto: Elevato numero di tessere non significa elevata partecipazione o condivisione. È importante. Chi si lamenta, pur rimanendo iscritto prova a cambiare le cose?   –    – Tra i commenti ho visto negare o interpretare a proprio modo il primo articolo del CAI. Ho i brividi.   –         – Necessità di adattamento, evoluzione. Credo che questi servano e non solo da parte di CAI e Scuole. Avrei altre considerazioni un po’ più sprezzanti ma al momento le tengo per me.

21)  Poi c’è tutta la questione titolati e responsabilità che allontana chiunque voglia fare qualcosa che potrebbe essere d ‘aiuto perché non può per regolamenti.Si salvano quelle poche scuole d’ alpinismo peraltro poco aiutate e spesso malviste anche nelle sezioni finché gli istruttori ormai in gran parte avanti con gli anni terranno botta.

Sono stato iscritto al Cai dal 1987 al 2021,e, me ne sono andato troppo tardi. Il Cai non rappresenta da tempo quello che dovrebbe essere e cioè un’ associazione che porta avanti l’alpinismo ma una associazione parambientalista da usare politicamente a seconda delle situazioni. È così a livello centrale e nelle sezioni. Il peccato fu commesso tanti anni fa quando nacquero le prime palestre indoor, lì si doveva capire che si doveva aprirle come Cai, non invece avere un atteggiamento di sufficienza molto snobistico.I giovani ora si vedono li, si conoscono e vanno prima in falesia poi in montagna. Poi c’è tutta la questione titolati e responsabilità che allontana chiunque voglia fare qualcosa che potrebbe essere d ‘aiuto perché non può per regolamenti. Si salvano quelle poche scuole d’ alpinismo peraltro poco aiutate e spesso malviste anche nelle sezioni finché gli istruttori ormai in gran parte avanti con gli anni terranno botta. IL Cai commise gli stessi errori che ora stanno commettendo le Guide Alpine, vedasi l’atteggiamento nei confronti della figura del Maestro di arrampicata oggi come ieri con la Guida Ambientale. Non esistono più i monopoli perché il mondo è cambiato, non esistono più alpinisti eroi, perché l’eroismo è un’altra cosa, non ci vuole più burocrazia ma più libertà. Ormai è tardi, non aver fatto niente prima, consapevolmente perché certe cose davano e danno fastidio ha allontanato chi l’alpinismo e l’arrampicata la pratica davvero. Tra 10 anni, quando i ” diversamente giovani” non ci saranno il Cai sarà un ricordo di sé stesso. Massimo Camere

Sono iscritto al Cai da quando ero ragazzino. Ho anche fatto l’istruttore di alpinismo,  quindi so di cosa parlo. Il riferimento a Mengele non vuole offendere ma semmai fare riflettere. E comunque l’ho usato a titolo di esempio.  Non sono anti Crovella per definizione. Molte volte mi trovo d’accordo con quello che sostiene e molte altre no. Semplicemente rappresenta per me una persona insopportabile anche quando dice cose su cui concordo. Non ci voglio fare nulla.

STATUTO DEL CLUB ALPINO ITALIANO  Art. 1 – Il Club alpino italiano, fondato in Torino nell’anno 1863 per iniziativa di Quintino Sella, libera associazione nazionale, ha per iscopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente di quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale. … … … «[…] il CAI NON è un’associazione ambientalista. L’obiettivo di tutele dell’ambiente fa parte dell’articolo 1 dello statuto del CAi, vergato dalla mano stessa di Quintino Sella, ma NON è l’essenza primaria del CAI. Di conseguenza non è su questo obiettivo che si deve creare l’aggregazione.» … … … C’è qualcuno in grado di capire la logica secondo cui, partendo dall’articolo 1 dello Statuto CAI, si arriva a concludere che la difesa dell’ambiente naturale delle montagne NON è l’essenza primaria del CAI?   Domanda: se le montagne vengono ridotte a giostre, che facciamo noi? Andiamo in giostra?        

Sono da cinque anni presidente dwella piccola sezione CAI di Domegge (Centro Cadore), iscrittoal CAI dal mese successivo all’uscita de “I falliti”, oggi condivido l’intervento n.2 di Carlo). Credo che oggi sia fondamentale per modificare l’associazione CAI, così come è organizzata, occorra starci dentro. Non è moralismo ma una pratica indispensabile per capire. Le sezioni sono Enti di diritto privato, il CAI naz. un Ente di diritto pubblico. Soccorso alpino, Guide, CAAI sono Sez. Nazionali di diritto privato. Chi fa manutenzione ai sentieri sono volontari senza (Sez di montagna) il più delle volte senza rimborsi spese, la manutenzione di Sent. attrezzati e vie ferrate è compito di professionisti (GA) giustamente retributi. Il territorio alpino viene gestito, per il CAI, dalle sezioni di montagna ma il maggior numero di iscritti (e le decisioni conseguenti per maggioranza) si trova nelle città. I corsi di qualificazione (parlo per il Veneto) vengono fatti in pianura dove ci sono numeri e risorse, mentre nelle sezioni di montagna non si riescono a organizzare ne scuole di alpinismo ne di escursionismo ne escursioni che prevedono anche solo un metro di cavo o un gradino di roccia. La burocratizzazione della montagna esclude chi vive in montagna non solo dalle decisioni ma anche dalla cultura alpina che rimane un riferimento solo per chi vive in pianura. Sono daccordo con quanto detto perchè frutto di buon senso e attenzione al problema ma provate a decidere in un confronto e diventare il soggetto responsabile. Dieci anni fa scrivevo di Club quello dei cai (i calli) e quello del CAI, oggi mi ricredo c’è in ogni territorio un CAI e l’unico modo per uscirne con un risultato utile è dato dal confronto più ampio possibile. Grazie Alessandro.

Prima di chiudere tutto per l’ennesimo evento associativo (non di montagna, ma in ambito professionale) per il fine anno, lascio ancora uno spunto di riflessione e di informazione.   Per  chi possa trarre l’impressione che l’osservazione circa il Dr. Mendele riguardi esclusivamente il CAI Torino (e Crovella in prima persona), mi permetto di ripubblicare uno stralcio dello Statuto della Scuola Righini di Milano.   La Righini e l’altra grande scuola di scialpinismo a livello nazionale (“altra” rispetto alla SUCAI Torino, in cui sono nato e cresciuto fino a essere Direttore a 24 anni ) e lo stralcio che riporto è importante per capire che l’attività didattica del CAI non solo torinese (specie nel comparto del scialpinismo) non è semplicemente limitata alla diffusione di nozioni tecniche o di cultura alpinistica/scialpinistica, ma svolge una funzione di volano per la  diffusione della cultura del CAI nel suo complesso e quindi dei VALORI del CAI. In parole povere le scuole (in particolare di scialpinismo, troppo lungo ora spiegare le motivazioni storiche) sono un volano della diffusione della mentalità caiana. Chi si iscrive alle Scuole CAI, deve saperlo e condividerlo., sennò non è lì il suo posto.   Dallo Statuto  della Scuola Righini di scialpinismo (Milano): La Scuola è costituita per:- diffondere la cultura, l’etica, i valori del Club Alpino Italiano ed in generale la passione per la montagna, in modo particolare quella invernale;   QUI SEGUE UNA SERIE DI ALTRI OBIETTIVI STATUTARI PIU’ TECNICI, MA RILEVANTE E’ CHE IN CIMA A TUTTO C’E’ IL PUNTO CHE HO RIPORTATO. QUELLO E’ L’OBIETTIVO DEGLI OBIETTIVI: diffondere i valori del CAI, cioè la mentalità che voi chiamate caiana. Credo che valga per la quasi totalità delle Scuole CAI.   Ciao!

@15 Apprezzo e contraccambio. A differenza di altri commentatori seriali anticrovelliani per partito preso, tu  sei disposto a ragionare pacatamente, il che è il sale di un sano dibattito.       Per quanto riguarda l’ambientalismo come eventuale pretesto aggregativo del CAI, ho già detto in passato – ma forse non eri ancora un frequentatore sistematico del blog – che il CAI NON è un’associazione ambientalista. L’obiettivo di tutele dell’ambiente fa parte dell’articolo 1 dello statuto del CAi, vergato dalla mano stessa di Quintino Sella, ma NON è l’essenza primaria del CAI. di con seguen za non è su questo obiettivo che si deve creare l’aggregazione. mille altre sono le associzione esclusiavmente ambientaliste, quali ad esempio Mountain Wildeness (MW), di cui Gogna è una delle personalità di rilievo (puoi chiedere a lui come aggregarti): in quel caso si tratta di associazioni ambientaliste in senso stretto e di conseguenze la vita sociale e il piacere dell’aggregazione si incentra proprio sull’ambientalismo. Viceversa sbaglierebbe di suo chi si iscruvesse al CAI solo per questo specifico punto. Ciao!

Crovella n. 11: grazie.   Ed è un apprezzamento sincero. Hai letto il mio commento e hai risposto, nella giusta maniera. Possiamo anche non essere d’accordo su quasi tutto. Curiosamente oggi almeno su questo punto ci siamo trovati, direi palesemente, d’accordo: le nostre esperienze di vita, i nostri punti di riferimento e di conseguenza le nostre convinzioni sono quanto di più distante ci possa essere. Nello specifico tu intendi il CAI in un certo modo, io ammetto che per me questo CAI non significa niente, e pazienza se non vedi nelle urgenze di difesa dell’ambiente un’opportunità di aggregazione, un’attrattiva rinnovata, anche per quelli come me. Però hai risposto. Ti ringrazio.

@10 E’ proprio così e nel commento 11 trovi le spiegazioni che non riguardano solo la mia persona, ma il mondo CAI in quanto sono molto diffuse fra i caiani.   E’ palese da sempre che non tu sei un caiano: di fatti non pare proprio che il CAI ti corra dietro. Mi domando però come tu possa sentirti coerente con il tuo ruolo di guida alpina. Infatti (a meno che la mia memoria mi faccia prendere una cantonata), il vostro Collegio Nazionale è una sezione nazionale del CAI. In ogni caso, è accertato che tale vostro organo direttivo ha sede in Via Petrella 19/c Milano, cioè presso il CAI Centrale (!). Insomma, “se non è zuppa è ban bagnato” (di fatti pare che, a stragrande maggioranza, le singole guide alpine siano socie CAI anche a titolo personale. Stame bin

Nominare Mengele in qualsiasi contesto mi pare offensivo per almeno 6milioni di persone. Inserirlo in un discorso di tessere, adesioni, cambiamenti necessari credo sia passibile di denuncia. 

Marco 9 [Ciao] Qui c’è tutta la perdita di senso. La perdita dell’identità. L’appiattimento al così fan tutti. La fagocitazione – senza battaglia – dell’intelligenza da parte del dio mercato. E anche, e oltre, il vuoto esistenziale, la disperazione latente, l’angoscia che via via prenderà chiuque che troverà senza più base dove appoggiare i piedi, senza più casa dove tornare. Si è scelto il dito e il divano. Servono bombe.

Precisazioni: 1) Se scrivete: “Il CAI non significava niente per me”, confermate la mia tesi: è BENE che non facciate parte del CAI. Rivadisco: chi non vede di suo, o non è stato portato dal CAI a vedere il bello del CAI, e meglio (sia per lui che per il CAI) che le strade di vita siano totalmente indipendenti.   2) Il CAI è una comunità di borghesi. E’ verissimo, ma in parte no. IL CAI è stato fondato a Torino nel 1863 da Quintino Sella (professore universitario di mineralogia) e i primi soci (nonché presidenti) sono stati tutti borghesi, se non addirittura nobili dell’allora monarchia sabauda. Lo stesso spirito iniziale, coniato sull’anglosassone Alpine Club, è uno spirito chiaramente “borghese” e di impostazione illuministica. Questa tradizione “borghese”, specie nella Sezione del CAI Torino (che è la stessa fondata nel 1863) è rimasta inalterata. Tuttavia la stessa esperienza storica torinese ha registrato anche l’andar in montagna con altri provenienze socio-culturali. Nei primi del ‘900, oltre ad altre associazioni indipendenti, fu fondata, fuori dal CAI, l’UGET che raccoglieva chi non si riconosceva nell’impostazione elitaria della Sezione torinese. L’UGET fu costretta a entrare nel CAI durante il Ventennio, ma mantenne (e ha tuttora) l’autonomia rispetto all’altra sezione cittadina. Le differenze socio-culturali, ancora rilevanti negli anni ’50-’60 e anche un po’ nei ’70, si sono progressivamente stemperate, fino quasi ad annullarsi ai giorni nostri. La controprova è che uno come me, “borghese” prima ancora che caiano (anzi: io sono caiano proprio perché, a monte, sono borghese) frequenta abitualmente entrambe le aree e da entrambe è rispettato e salutato sempre con grande affetto. Il CAI è sostanzialmente “borghese” e penso che sia una caratteristica che si ritrova un po’ in tutta Italia. Specie nelle Sezioni metropolitane, ma non solo.   3) Il CAI non è un movimento di lotta: non è mai stato né mai lo sarà. Il CAI è una comunità di appartenenza: certo, quella è la sua cifra distintiva. Lo è per DNA originario, fin da Quintino Sella, e se lo è trasportato in quasi 170 anni di vita ininterrotti. Per questo, io affermo che, chi non si riconosce, di suo, nei valori del CAI, è meglio che faccia una strada diversa da quella del CAI.   4) Gli episodi quali le “cazziate” degli istruttori agli allievi (o degli accompagnatori ai partecipanti a gite sociali ecc) sono l’essenza del CAI caiano. Chi è veramente caiano fin nel midollo (come il sottoscritto) ama un CAI così. L’altra settimana ero all’inaugurazione del corso di scialpinismo 2023 (quello “grosso”: 90 allievi, non bruscolini e anche qui sold out) e l’attuale Direttore ha detto, fra mille cose: “Cari allievi, in gita voi dovete ubbidire ciecamente ai vostri istruttori”. In parole semplici: chi vuole fare come gli pare, vada per conto suo. Quindi non è cosa che penso solo io, c’è un mondo (il mondo del CAI) che ragiona così e ama “quel” particolare CAI. Quindi gli episodi raccontati da foca monaca alias Claudio non sono un’eccezione, sono la sistematica manifestazione della natura del CAI. il CAI è caiano, sennò non è CAI. Ribadisco: chi non ama il CAI, faccia la sua strada.   Sarebbe una forzatura costringere gli uni a far parte di un’associazione “borghese”, che insegna una scuola di vita, che forgia i suoi giovani, che impone le regole comportamentali, ma sarebbe una negatività anche per il CAI che si vedrebbe costretto a gestire casi di “ribellione” e di insubordinazione, discussioni ed episodi fastidiosi, il tutto poco piacevole per gli altri frequentatori del CAI.   Nell’esperienza personale che io ho del CAI (non solo torinese), tutto fila liscio, il clima generale è complessivamente cordiale e di divertimento per tutti (certo a volte ci sono dei piccoli screzi, ma capita anche nelle migliori famiglie). Tutto ciò è possibile perché c’è un comune denominatore, che poi è l’essenza dell’essere caiano: “trovare, in modo spontaneo, il CAI bello e divertirsi nel farne parte”

Il dott. Mengele non era probabilmente di suo un carnefice ma sacrificava, senza scrupolo alcuno, vite umane al fine di approfondire i suoi studi, specie sui parti gemellari, che sicuramente produssero elementi scientifici utili a quello che la medicina è ai giorni nostri. Le idee politiche che aveva erano sicuramente un forte contributo al suo agire. Ecco, questa fissa di lavorare e plasmare i giovani, l’ho istintivamente associata al modo di operare di Mengele e al commento numero 5.

Pensate la sat fa pubblicità regala una tessera al tuo amico per Natale robe da matti

Molto spesso si è spinti, semplicemente, dal desiderio di essere parte di una comunità: è questo il motivo per cui ci si iscrive a una associazione culturale, un circolo, una società sportiva. Ci sono però comunità che si fondano sul senso di appartenenza e sull’identità. Le lunghe riflessioni di Carlo Crovella sull’essere caiano, di cui Cominetti segnala qui sotto un chiaro esempio (l’intervento pubblicato da Crovella il 5 luglio 2020, intitolato “Caiano sarà lei!”), sono per l’appunto i tipici discorsi di appartenenza, e identitari, sui quali sono fondati, per esempio, l’associazionismo cattolico fondamentalista e il Fronte della Gioventù. Un tratto comune a molte associazioni di questo tipo è l’aspirazione, talora programmatica, ad essere per i giovani scuola di vita.   Diversa è la natura delle comunità di lotta e di movimento. Comunità all’interno delle quali non conta chi sei e come sei (o come devi essere), quello che importa è dove vuoi andare, a cosa aspiri, per te e per la comunità, e quello che sei, come sei e da dove vieni è inteso come arricchimento della comunità, non come un suo potenziale inquinamento.   Il CAI, per come l’ho sperimentato io, è un’associazione di borghesi. Sul finire degli anni ottanta, quando mi iscrissi, c’erano tanti tra gli altri giovani iscritti che giocavano a rugby e odiavano il calcio. Tanti che frequentavano il liceo, che del resto frequentavo anch’io, perché ero bravo a scuola e perché mio padre e mia madre avevano voluto per me un destino diverso dal loro. Ma al liceo della mia città c’erano solo borghesi, il più sfigato era figlio di insegnanti ed io, col mio papà operaio, mi ero sempre sentito diverso. Tra quelli che che venivano da famiglie modeste, e che erano bravi a scuola, pochissimi sceglievano il liceo: andavano quasi tutti all’ITIS. Io ero di fatto un’eccezione.   All’epoca giocavo a calcio e fino a quindici anni avevo fatto gare di sci. Lo sci agonistico a quel tempo non costava quanto oggi, questo è sicuro, ma è anche certo che qualche sacrificio i miei avevano dovuto farlo, per mantenermi in quell’ambiente, che era soprattutto terreno di affermazione sociale per gente che si stava arricchendo. Un ambiente problematico, quello dello sci club, ma non mi ci ero sentito a disagio: mi sentii invece molto a disagio e definitivamente fuori posto quando arrivai al CAI.   Era stato un mio compagno di classe a convincermi di fare le tessera e iscrivermi subito al corso di sci alpinismo. Il suo idolo era Mauro De Benedet, il quale, a suo dire, era in grado di sciare bene su ogni tipo di neve. Una delle prime cose che imparai, in occasione della prima o seconda uscita del corso, fu questa: lo sci agonistico era roba per bifolchi, stando a quello che mi aveva urlato in faccia un istruttore dopo che, preso da non so quale ispirazione, avevo un po’ accelerato l’andatura e avevo anche osato fare un saltino.   Come conseguenza di questo piccolo incidente, il tipo si era premurato, da lì in poi, di starmi sempre davanti: e che non ci provassi nemmeno, a sorpassarlo. Un giorno mi fece una gran predica, richiamando l’attenzione di tutti, perché a suo dire ero un caso esemplare, da non imitare, avendo dimenticato di mettere non so più cosa nello zaino. Io lo osservavo e mentalmente lo mandavo a quel paese, e insieme a lui tutto il resto del gruppo.   Ovviamente sbagliavo. C’erano, tra i ragazzi e le ragazze che frequentavano quell’ambiente, molte bravissime persone e tra loro era tanta la passione per la montagna, che li teneva uniti. Non so neanche più quando smisi di rinnovare la tessera, e non fu il frutto di una decisione: forse mi dimenticai e non ci pensai più. Avevo degli amici coi quali scalavo e sciavo e fondamentalmente mi divertivo. In montagna passavo tutto il tempo che potevo. Il CAI non significava niente per me.   Non so se la mia storia possa essere vista come un esempio di cose che al CAI non funzionano oppure se, più verosimilmente, si tratti solo di un’esperienza personale (forse persino una percezione personale) con zero valore statistico. Sono stato invitato a tornare, in qualche occasione, e ricordo di averci pensato, ma ricordo anche che a respingermi sia stato, di nuovo, il timore di potermi sentire fuori posto.   Or, la butto lì: oggi che la sfida ambientalista all’aggressione della montagna è divenuta, tra gli alpinisti, urgenza e comune sentire, il CAI avrebbe forse l’occasione per smontare un po’ lo storico senso di appartenenza di molti dei suoi iscritti, e votarsi in maniera puntuale alle sempre più numerose cause di resistenza di tipo ambientalista. Sospetto però che la dimensione e il peso politico dell’associazione ne facciano un soggetto utile e manovrabile, come anche è il WWF (vedasi caso del Jova Tour). L’occasione andrà dunque irrimediabilmente persa, e per salvare la reputazione conteranno sempre di più i Crovella di turno, gente già compromessa con gli interessi dell’una e dell’altra fazione politica, e sempre pronti a stilare decaloghi e regole di comportamento.

Sono iscritto al cai dal 1978, ho fatto accompagnatore di alpinismo giovanile per 16 anni e sono stato consigliere di sezione. Da pochi mesi ho mollato tutto, troppe regole piovute dall’alto, da gente che si sveglia alla mattina e si inventa qualcosa, ogni anno qualcosa che facevi prima non va più bene…..è troppa politica, anche qui la poltrona fa gola, basta vedere cosa è successo all’ultimo congresso nazionale. Mi sono dimesso schifato da tutti gli incarichi. Ma rimango comunque iscritto al cai. Chissà!

Mentre scrivevo il 5, Ugo si è inserito con il 4. Mi affretto a precisare, per non innescare confusione nei lettori. Non c’è contraddizione sullo status quo della realtà subalpina: c’è evidentemente una differente visione personale (a noi due ben nota da tempo, in un clima assolutamente cordialissimo e di reciproca stima) fra prevalenza dell’apertura ai nuovi, specie se alpinisti, (lui) e invece prevalenza dei valori caiani in quanto tali (io). Forse incide la diversa specializzazione: Ugo è più alpinista e io sono più scialpinista (non entro nel merito, ma chi coglie i diversi spiriti delle due attività, comprende al volo cosa intendo). All’atto pratico, in area torinese c’è bilanciamento operativo fra queste due visioni: il fatto che, anche senza una specifica azione di marketing ufficiale, tutti (e dico tutti) i corsi e le attività siano sold out conferma la mia radiografia precedente.

Come tutti sanno, perché l’ho ripetuto alla noia, io sono un “caiano” all’ennesima potenza. I motivi sono molteplici e li ho spiegati più volte, in particolare nell’articolo già linkato.   Per me l’appartenenza al CAI è proprio un valore in sé, parallelo e indipendente dall’andare in montagna. Ovvio che ci sono dei collegamenti, ma le due cose vivono ciascuna di vita autonoma. Anzi dirò di più: ci sono delle fasi della vita in cui far parte del CAI (con i suoi vari impegni, da istruttore a collaboratore nelle molteplici commissioni) è perfino più importante che fare gite e arrampicate in sé.   Forse per questo non comprendo perché mai il CAI si dovrebbe mettere a correre dietro ai “giovani” che lo schienano. Il CAI, pur con milioni di difetti, è “bello” in sé. Per cui: caro giovane, se da solo vedi la bellezza del CAI, ti iscrivi senza che il CAI ti debba correre dietro. Se, al contrario, non vedi da solo la bellezza del CAI, è inutile correrti dietro: la tua iscrizione sarebbe una forzatura e non farebbe bene né a te (che ti sentiresti in gabbia) né al CAI (che non avrebbe in te un socio entusiasta e volenteroso). Meglio per tutti che tu faccia la tua strada, lontana e indipendente dal CAI.   Corollario: ho già spiegato in altre occasioni che questa mia visione (che è molto diffusa in area torinese) è condizionata dalla partucolare realtà del CAI subalpino. Due Sezioni “grandi” e blasonate, più una miriade di sezioni dell’hinterland. Sei Scuole, di cui due grandissime (Gervasutti di alpinismo e SUCAI di scialpinismo), ma le altre non sono da meno. Non sono da meno neppure le numerosissime Scuole (in genere di scialpinismo) dell’area metropolitana, magari più piccole ma molto dinamiche e prestazionali. Vi è enorme interscambio fra area cittadina in senso stretto e Sezioni dell’hinterland: moltissimi sono i residenti in città che sono soci di una sezione dell’hinterland e viceversa. Lo stesso per le Scuole.   Insomma una realtà numerosissime, frastagliata, con un’offerta ampia e diversificata (dai molteplici corsi di arrampicata libera alle gite sociali scialpinistiche old fashion). non parliamo poi dell’aspetto culturale, con conferenze, presentazioni libri, proiezioni foto… dalle sedi di CAI Torino e CAI Uget fino alle sezioni collaterali )e spesso alle sottosezioni di cittadine dell’hinteland) è un fiorire di vivacità e dinamismo.   Ogni voce dell’offerta globale, che sia un corso blasonato o una “meredata” domenicale, è il genere sold out. Cioè non riusciamo a soddisfare tutte le richieste di adesioni che ci pervengono. Faccio un esempio fra i mille: a metà novembre 2022 la serata di iscrizioni telematiche (via internet) al corso di scialpinismo 2023 si è aperta alle ore 0.00 e si è chiusa alle ore 0.02. Cioè in due minuti sono andati via tutti i posti disponibili.   chiaro che con una realtà subalpina del genere, chi fa parte dei vari CAI di area non comprende la necessità di “correre dietro” ai giovani dispersi nell’universo. Ne abbiamo a bizzeffe, tirati su da noi, attraverso i vari Gruppi Giovanili di provatissima tradizione (attivi da decenni e decenni). Grazie alla disponibilità dei relativi accompagnatori, sempre volontari come nella più pura tradizione CAI, coinvolgiamo i ragazzi fin dall’esta delle scuole medie. I Gruppi Giovanili li impostano, questi ragazzini (m/f) e li preparano a puntino: a 18 anni sono pronti per iscriversi alle Scuole o ai vari corsi o alle altre attività sociali nelle diverse discipline delle montagna.   Premesso tutto ciò, che serve per comprendere come mai i caiani torinesi siano così convinti della bontà del CAI, la mia personale conclusione è che non solo non ci interessa correre dietro ai giovani “altri” (a pur titolo di esempio: i climber delle strutture indoor), ma addirittura sarebbero elementi potenzialmente di fastidio (in quanto “non omogenei” ai nostri valori) per l’efficacia della nostra macchina organizzativa. Sarebbe più consistente il rischio di crisi di rigetto da parte di questi soggetti che la possibilità di “caianizzarli”. io personalmente sono convinto che sia meglio lasciarli procedere per la loro strada, che di giovani su cui lavorare, qui in area torinese, ne abbiamo da toglierci la voglia.

Io, che sono indubbiamente vecchio, (tra poco più di un mese ne compio 84), sono socio CAI dal 1958 ed istruttore della scuola di alpinismo Gervasutti dal 1965, sposo al 100% quanto esposto nell’articolo apparso sullo Zaino. I giovani che scalano e vogliono scalare, che pure ci sono, basta esaminare le adesioni alla scuola di alpinismo, non percepiscono più nulla per loro interessante nelle organizzazioni ufficiali (CAI CAAI) che diventano sempre più “vecchie”. Per chi ne ha voglia basta andare a sfogliare la Rivista Mensile degli anni ’60, ’70, ’80 e confrontarla con la pubblicazione attuale del CAI ed ha subito la sensazione di quanto è cambiato il sodalizio

Secondo me non si tratta di crisi di associazione ma di carenze in senso pratico. Non so perché ma molti, sicuramente non tutti, soci Cai si ritengono “arrivati” e non fanno nulla per migliorarsi ma semmai si nascondono dietro a una tessera. Essendo cresciuto nel disprezzo delle tessere di qualsiasi tipo, la mia frequentazione del Cai è sempre stata sporadica fin dall’inizio.  Mi piaceva da matti andare in montagna fin da ragazzino e quando due miei amici si scrissero al corso di alpinismo io partecipai a un paio di lezioni teoriche in sede per vedere di cosa si trattava e capii che non faceva per me. Entrai in simpatia con un paio di istruttori dissidenti (uno era Andrea Parodi) che mi portavano in giro (io ero minorenne e quindi non avevo l’auto) e mi insegnarono un sacco di cose. Ma anche loro, che erano persone davvero in gamba, non impazzivano per il Cai e parlavano già negli anni ’70 di muffa e arretratezza. Ovvio che questo mi formò in tal senso e quando divenni guida alpina, notai, e noto ancora, nel socio Cai (che io chiamo caiota più che caiano) una specie di marchio indelebile che lo rende involuto e assolutamente non al passo coi tempi, sia tecnicamente che, soprattutto,  mentalmente. Ovviamente ci sono le eccezioni, ma sono rarissime. Come dice Crovella, si riconosce dopo 5 minuti se uno è caiota oppure no. Dal suo rapporto con lo zaino, da come si atteggia e soprattutto da come pensa. È come se la situazione in cui il Cai lo mette, dopo un po’ di frequentazione, lo rassicurare al punto di non volere più fare nulla per cambiarla perché quell’equilibrio rassicurante potrebbe rompersi, aprendo scenari sconosciuti. Quando vengo contattato da un potenziale cliente che mi dice che è del Cai, mi dico, oddio, vediamo cosa si può fare. E sono contento quando mi sbaglio perché succede pure che trovo persone in gamba che….poi mi dicono che il Cai lo frequentano poco o che si sono iscritti per l’assicurazione.  Da quando il Cai ha puntato sulla quantità dei soci e non sulla qualità le cose sono terribilmente peggiorate. Pur di tirare su gente si fanno cose che vanno contro gli impegni statutari dell’associazione. Ricordo una volta che in occasione di un’esercitazione del soccorso alpino, di cui ai tempi facevo parte, che c’era la possibilità per 10 soci Cai di fare un giro panoramico in elicottero gratuitamente.  Ebbene, ci fu una specie di massacro per aggiudicarsi il posto. Ma ne potrei raccontare a decine ddi episodi assurdi e anche molto più gravi. Insomma il Cai è il Cai, qualcosa di inimitabile. E non ditemi che non ve l’avevo detto.

  Anche la crisi del Cai condivide la crisi dell’associazionismo nell’epoca dell’individualismo. Le cosiddette associazioni sono perlopiù luoghi virtuali che esistono solo sui registri contabili senza implicare la partecipazione degli associati. In genere il socio di qualcosa esaurisce il suo impegno associativo all’atto dell’iscrizione. Vale per i partiti e i sindacati per esempio, ma vale anche per le associazioni di volontariato o ambientali. Attorno al nucleo dei militanti gravita una  costellazione di sostenitori che offre un contributo finanziario ma delega l’impegno e le scelte ideologiche ad una minoranza esigua. Al contrario mi ricordo i boy scout o l’azione cattolica nel contesto di un sistema  culturale molto forte e per tanti versi invecchiato o abbandonato, ma non vedo alternative ugualmente forti e convincenti.

Il caiano spiegato al mondo: https://gognablog.sherpa-gate.com/caiano-sara-lei/ Ognuno faccia il proprio gioco.

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